Registrati e mostra il tuo profilo alle aziende in cerca di nuovi collaboratori
REGISTRATI
Blog e News

“Investiamo sui giovani, sono una risorsa”

VENERDÌ 16 OTTOBRE 2020 | Lascia un commento
Foto “Investiamo sui giovani, sono una risorsa”
Scritto da Gabriel Bertinetto

L’analisi di Sonia Bertolini, docente di sociologia del lavoro

L’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto tasso di disoccupazione giovanile. In questa intervista Sonia Bertolini, docente di sociologia economica e del lavoro all’Università di Torino, ne spiega le ragioni, e indica le vie che si potrebbero seguire per tentare di risolvere il problema.  

 

L’Istat rivela che dopo il crollo verificatosi nei primi mesi della pandemia, a luglio c’è stato un lieve recupero (+ 85.000) nel numero complessivo degli occupati. Eppure la disoccupazione fra le persone sotto i 35 anni è salita oltre il 30%. A lei che ha dedicato alla condizione giovanile buona parte delle sue ricerche, chiederei di esaminare sia le cause strutturali dell’alto livello di disoccupazione in quella fascia di età, sia gli aspetti del fenomeno più direttamente legati all’attuale emergenza sanitaria.

Storicamente l’Italia ha sempre investito di più nel favorire l’occupazione dei capifamiglia maschi adulti, come soggetti ritenuti in grado di garantire protezione economica al resto del nucleo familiare. Applicato al mercato del lavoro, questo criterio si è tradotto in un sistema di tutele costruito principalmente attorno ai contratti a tempo indeterminato nelle imprese medio-grandi. In questo quadro si è radicata una certa riluttanza imprenditoriale ad assumere giovani, perché considerati meno motivati al lavoro rispetto ai loro genitori. Se compariamo i dati del nostro Paese con quelli del resto d’Europa, notiamo una costante presenza di tassi di disoccupazione assai elevati in Italia soprattutto fra i giovani (oltre che fra le donne). Alle ragioni su indicate, vanno aggiunti gli scarsi legami fra il sistema della formazione e dello studio da una parte e il mondo del lavoro dall’altra. Una preparazione prevalentemente teorica e concettuale risulta meno spendibile sul mercato del lavoro. Questo almeno dal punto di vista dell’imprenditore. Il problema è andato accentuandosi negli ultimi tempi con la crescente flessibilità del mercato del lavoro. Essa, questa era l’ipotesi su cui si reggevano le misure atte a favorirla, avrebbe dovuto velocizzare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Di fatto le cose non si svolgono necessariamente così. Diventa più facile in linea di massima fare qualche esperienza lavorativa precoce, ma bisogna andare a vedere quali siano poi la qualità e la durata delle medesime.

Tutto più complicato ora a causa del Coronavirus, vero?

Sì, ed il rischio è che non cresca solo il numero dei giovani disoccupati, ma anche degli inattivi, cioè di coloro che nemmeno cercano più un lavoro. Particolarmente vulnerabili oggi sono gli individui assunti con contratti a tempo. Il blocco dei licenziamenti deciso dal governo per tamponare gli effetti sociali negativi della crisi economica non obbliga infatti l’imprenditore a rinnovare i contratti in scadenza. E poiché questa forma contrattuale è particolarmente usata dalle aziende nei confronti dei giovani, ne risulta che siano questi ultimi nella fase attuale a risentire maggiormente del declino occupazionale. I contratti a termine in sé non sono un male e aiutano a entrare nel mercato del lavoro, ma è chiaro che in un periodo di crisi sono i primi a saltare.

 

Alla radice delle distorsioni croniche di un mercato del lavoro che penalizza i giovani, ci sono secondo lei anche scelte sbagliate, sia politiche che imprenditoriali?

Noi avevamo sino a 30 anni fa un sistema in equilibrio. Giuste o sbagliate, le scelte politiche e imprenditoriali erano allora in funzione di un mercato del lavoro legato ad una particolare situazione economica, sociale, familiare. Le scelte passate si adattavano al contesto di allora. Esse non hanno più retto nel momento in cui si è deciso di importare nel nostro tessuto economico e sociale il modello della “flexicurity”, vale a dire una strategia indirizzata ad aumentare contemporaneamente sia la flessibilità sia la sicurezza del mercato del lavoro. La sua applicazione concreta ha prodotto certamente più flessibilità ma pochissima sicurezza, e questo mentre si indeboliva l’istituto del contratto di lavoro a tempo indeterminato. E’ mancato soprattutto il potenziamento di politiche attive per il lavoro, che consentano al giovane di ricollocarsi velocemente nel momento in cui diventa disoccupato. Sarebbe anche importante che le prime esperienze lavorative, più ancora che redditizie, fossero formative, coerenti con il percorso scolastico e universitario, per trasformare le competenze teoriche in abilità.

 

Qual è l’atteggiamento dei diretti interessati, i giovani, rispetto a questi sviluppi nel mercato del lavoro?

“Horizon 2020”, uno studio promosso dall’Unione Europea in 9 Paesi membri, ha messo in luce la diversità di approccio fra i nostri giovani e gli altri, rispetto al mondo del lavoro e alla società in generale. Quando si chiede al ragazzo italiano di descrivere il suo futuro, emerge un immaginario alquanto proiettato sul passato. Molti vedono se stessi fra 5 anni con un posto fisso, una famiglia e una casa di proprietà. I nostri giovani dovrebbero essere educati a capire che la realtà è cambiata, che difficilmente faranno lo stesso lavoro e nella stessa ditta per tutta la vita. Devono essere preparati a cogliere le opportunità di mettere assieme esperienze diverse di lavoro per acquisire competenze che serviranno loro in seguito. Nelle nostre iniziative politiche manca questa incentivazione. Un altro problema, correlato ai precedenti, è che i ragazzi restano in famiglia troppo a lungo. Certo se ciò accade è spesso per necessità. Ci sono anche responsabilità delle imprese che non sempre vogliono farsi carico di questo tratto iniziale di formazione professionale, che dovrebbe trasformare le nozioni apprese studiando, in competenze spendibili nella prestazione lavorativa. I giovani vengono percepiti troppo spesso come un peso anziché una risorsa da valorizzare. 

 

Ha citato l’Europa. Ci sono modelli stranieri cui potremmo ispirarci per correggere i difetti nostrani? 

Possiamo prendere in considerazione Germania e Francia, che hanno un mercato del lavoro regolamentato in maniera simile al nostro, ma un “welfare” diverso. Su tre terreni quei Paesi potrebbero esserci di esempio. Hanno forti politiche attive per promuovere l’occupazione. Erogano indennità di disoccupazione a chi è in cerca del primo impiego. Sono dotate (soprattutto la Germania) di un buon sistema di alternanza scuola/lavoro. Su quest’ultimo punto da qualche tempo anche in Italia si tenta di fare qualcosa, ma siamo solo agli inizi. Un tirocinio ben costruito supera quel gap fra preparazione teorica e capacità pratiche che spesso lamentano gli imprenditori. Molti giovani si comportano nei colloqui preliminari o nelle prime esperienze di lavoro come fossero ancora a scuola o all’università e non siano in grado di calarsi nel nuovo sistema di relazioni della realtà lavorativa, proprio perché non l’hanno mai sperimentata prima. In Germania in questo campo sono molto avanti. L’alternanza scuola/lavoro è ben realizzata.  Spesso, appena conseguito il diploma, i giovani sono assunti proprio da quelle aziende in cui hanno svolto attività di apprendistato durante gli studi. La Germania è il Paese europeo con il più breve tempo di attesa del primo lavoro.

 

Diceva prima dell’indennità di disoccupazione. Non c’è qualcosa di simile qui da noi, il cosiddetto reddito di cittadinanza?

In realtà il reddito di cittadinanza è costruito in modo tale da risultare di difficile accesso per il giovane, soprattutto perché è calcolato sulla base del reddito familiare, oltre al fatto che la soglia oltre la quale si perde il diritto a fruirne è piuttosto bassa: 6000 euro all’anno, nei quali è compreso il reddito derivante da eventuali case di proprietà. In sostanza, per beneficiare del reddito di cittadinanza il giovane dovrebbe essere uscito dalla famiglia, cosa che qui da noi avviene molto tardi. Nel 2018 l’età media alla quale i ragazzi italiani vanno a vivere da soli è ancora la stessa del 2005: 30 anni. In Svezia è scesa sotto i 20. Va detto che la solidità dei legami familiari nel nostro tessuto sociale è un bene, sia dal punto di vista affettivo che economico. La famiglia funge da involucro protettivo, ma quando questo ruolo si prolunga eccessivamente finisce con il costituire un vincolo. 

 

Che altro può dirci sulle differenze fra i sistemi di welfare tedesco e francese rispetto al nostro? 

Germania e Francia sono dotate di meccanismi assistenziali molto più ampi. Per quel che riguarda l’indennità di disoccupazione, il beneficiario deve dimostrare di cercare attivamente lavoro. Se soddisfa questa condizione, l’indennità gli viene data anche se non ha mai lavorato e dunque non ha versato contributi. Questa è un’importante differenza rispetto al sistema assicurativo italiano, nel quale ricevi il sussidio se hai già versato contributi, cioè se sei già stato occupato. L’indennità di disoccupazione, così come è applicata negli altri Paesi europei, diventa un incentivo a recidere il cordone ombelicale con la famiglia di origine. Inoltre serve da scudo rispetto alla necessità di accettare qualunque lavoro, pur di ricavarne un introito purchessia. Chi non è in condizione di aspettare, accetta qualunque offerta. Chi ha le spalle protette da un’indennità di disoccupazione adeguata, può attendere e scegliere. In definitiva essa aiuta a ridurre le disuguaglianze. 

 

Ci sono poi differenze fra una regione e l’altra. In alcune zone la disoccupazione giovanile raggiunge livelli particolarmente drammatici, vero?

L’andamento del mercato del lavoro è ovviamente legato ai diversi livelli di sviluppo economico. Particolarmente allarmante, al sud, non è solo l’alto numero di giovani disoccupati, ma quello dei cosiddetti Neet, un acronimo inglese che designa coloro che né lavorano, né studiano né si formano. Quando la condizione di Neet si prolunga nel tempo gli effetti sono particolarmente gravi perché l’individuo non sfrutta adeguatamente il periodo in cui si forgia il capitale umano, gli anni in cui il cervello dal punto di vista neurologico è più in grado di assorbire contenuti. In seguito diventa sempre più difficile recuperare il gap accumulato. Anche all’interno delle aree più sviluppate si notano differenze notevoli. Fra le regioni settentrionali ad esempio il Piemonte è quella con il più alto numero di “Neet”. E’ un caso particolare, su cui assieme ad altri colleghi stiamo svolgendo una ricerca piuttosto interessante. Il Piemonte è una regione che avrebbe tutti i presupposti per correre: imprese innovative, alto tasso di digitalizzazione, largo uso delle intelligenze artificiali. Eppure non riesce a fare il salto. E’ come se le imprese più tecnologizzate non riescano a trascinarsi dietro il resto del sistema produttivo.

 

Lei ha parlato di politiche attive per incentivare l’occupazione. Rientrano fra queste i contratti di apprendistato? E’ vero che molti imprenditori ne approfittano per percepire le agevolazioni connesse all’assunzione dei minori di anni 30, senza poi rinnovare il contratto alla scadenza? E questo non per demerito del ragazzo, ma per potere assumere un altro al suo posto e godersi nuovamente i vantaggi fiscali e contributivi?

Noi siamo bravi a disegnare misure che sulla carta paiono ben congegnate. Ne sono state varate tante, dai contratti di collaborazione ai contratti di apprendistato, che lei citava e che sono effettivamente una buona cosa. Io credo che l’utilizzo di questi strumenti sia condizionato da un problema che definirei culturale. Nel ricorrere a certi incentivi tu puoi partire dal presupposto che i giovani siano una risorsa oppure un intralcio, e questo inficia positivamente o negativamente il risultato. Gli abusi ai quali lei accennava nella domanda devono essere sanzionati, ma non sempre è facile dimostrare sul piano formale che quegli abusi ci siano stati. In Italia molti dei provvedimenti per promuovere l’occupazione si ispirano ad esperienze positive di altri Paesi, ma da noi rendono meno anche per ragioni, torno a dire, culturali, di mentalità, per difetti di informazione. Più che continuare a fare piccole riforme, togliere un contratto e metterne un altro che di fatto ha la stessa forma, servirebbe un cambio culturale. Ma trasformare la cultura aziendale e la mentalità dei giovani stessi è un processo lungo. Sono stata delegata al “job placement” presso l’università di Torino, e facendo quella esperienza ho capito che forse noi stiamo troppo addosso ai giovani. Li guidiamo tantissimo. Ci sono “tutor” dappertutto. Spesso poi capita che quando si trovano in un contesto lavorativo diverso da quello vissuto in ambito scolastico o universitario i giovani non sanno come muoversi e gestirsi in autonomia.

 

Come vede il futuro dell’occupazione giovanile, sia nel breve periodo condizionato dalla pandemia, sia in una prospettiva più ampia?

Direi che per un anno resteremo immersi in una situazione semi-emergenziale. L’importante in questa fase è evitare che i giovani restino a casa senza fare niente. Lavorino o studino, è comunque importante che non si fermino. Bisogna evitare assolutamente che si ingrossi il popolo di coloro che smettono scoraggiati sia di cercare lavoro che di formarsi. Un dato che lascia ben sperare è che il numero delle immatricolazioni universitarie quest’anno non sia calato. Per quanto riguarda le prospettive di lungo periodo direi che siamo giunti ad un punto di svolta. Visto che il vecchio sistema di equilibri non funziona più, cogliamo l’occasione per investire pesantemente sui giovani, sfruttando proprio il fatto che sono loro ad avere maggiore dimestichezza con le nuove tecnologie, quelle su cui i programmi di riforma intendono puntare. Poiché si prevede l’arrivo di fondi dall’Europa, gran parte dei quali verrebbero investiti per sviluppare la digitalizzazione, creiamo dei canali preferenziali affinché queste risorse favoriscano il lavoro giovanile in quei settori. Se ciò non accadrà, resteremo un Paese vecchio, arretrato rispetto al resto d’Europa, con alti tassi di disoccupazione, e ancora tanti giovani senza lavoro. 



LinkedIn
Whatsapp
LASCIA UN COMMENTO
Acconsento al trattamento dei miei dati personali in conformità alle vigenti norme sulla privacy. Dichiaro di aver letto e accettato l'informativa sulla privacy
INVIA COMMENTO