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99 anni e mezzo per raggiungere la parità di genere

GIOVEDÌ 26 NOVEMBRE 2020 | Lascia un commento
Foto 99 anni e mezzo per raggiungere la parità di genere
Scritto da Gabriel Bertinetto

Ci vorranno cent’anni, anzi per la precisione 99 e mezzo, per azzerare le differenze uomo-donna sul pianeta Terra. Il suggestivo pronostico è formulato nel “Global Gender Gap Report 2020”, un documento elaborato dal World Economic Forum (WEF). Il WEF è una fondazione che ha sede in Svizzera ed è nota al grande pubblico come organizzatrice dell’annuale meeting di Davos, dove politici ed esperti si incontrano per discutere le maggiori questioni economiche internazionali.

Nel rapporto si analizzano e mettono a confronto le realtà di ben 153 Paesi, calcolando i miglioramenti e i regressi che sotto il profilo della parità di genere ci sono stati nei settori della politica, dell’economia, dell’istruzione e della sanità. Dall’enorme quantità di dati e tabelle è interessante estrapolare ciò che si mette in evidenza riguardo le differenze economiche fra i sessi. Un dato balza subito all’occhio, ed è il rapporto fra il reddito medio femminile e maschile, che su scala mondiale è all’incirca 1 a 2. 

Naturalmente per avere un’idea più precisa della situazione, bisognerebbe esaminare i singoli Paesi o le diverse aree geografiche, e si scoprirebbe che il divario è più o meno marcato a seconda del grado di sviluppo e di modernità. E’ comunque significativo notare come, ai notevoli passi avanti verso l’emancipazione politica femminile (aumenta nel mondo il numero di donne deputate o ministre) si accompagnino progressi a passo di lumaca in campo economico. Nell’ultimo quindicennio, il divario uomo-donna in termini di opportunità economiche si è accorciato di un misero 0,15%. 

Per ciò che riguarda l’Italia, come parità di genere siamo piuttosto indietro, al 76° posto, e siamo scesi di sei posizioni rispetto all’anno precedente. In Europa dietro di noi ci sono solo Grecia, Malta e Cipro. Non a caso, con specifico riferimento ai problemi del lavoro, il presidente Mattarella ha recentemente definito “impresentabile” il livello dell’occupazione femminile in Italia. Una donna su due è senza lavoro. 

Se fermiamo l’obiettivo sull’era pre-Covid, l’Istat ci informa che il reddito medio femminile raggiunge i 15.373 euro, restando molto al di sotto di quello maschile che è pari a € 20.453. Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, va sottolineato il miglioramento fatto nell’arco dell’ultimo decennio. Da un gap di reddito donna/uomo del 28% si è scesi al 25%. La distanza resta comunque considerevole. 

Applicando la stessa logica del confronto fra quel che abbiamo oggi  e quello che avevamo ieri, potremmo gioire nel notare come si sia fortemente ristretta la forbice nel tasso di occupazione fra i due sessi. Quarant’anni fa lavorava solo il 33,5% delle donne, ora il 49,5%. Ma se confrontiamo quest’ultimo dato con la percentuale attuale degli occupati maschi (67,6%), emerge una distanza di ben 18 punti percentuali. Siamo molto sopra, quasi il doppio, rispetto alla media europea, che si aggira intorno ai 10 punti. 

In sostanza, se è vero che sia in termini di reddito, sia in termini di occupazione, la situazione femminile in Italia è progredita con il passare del tempo, è pur vero che siamo ancora ben lontani dai livelli di molti altri Paesi a noi vicini. 

Fra i tratti caratteristici del lavoro femminile in Italia sono il part time involontario e le minori possibilità di carriera. Gran parte delle donne che scelgono il lavoro a tempo parziale non lo fanno per una scelta di vita, ma per costrizione. Un terzo delle lavoratrici italiane (3 milioni e 300mila su un totale di 9,8 milioni circa) ha un contratto a orario ridotto. La maggioranza di loro (circa il 60%) preferirebbe il tempo pieno ma è spinta in altra direzione da circostanze esterne, che spesso coincidono con l’obbligo di assistere minori o disabili. In sostanza 1.900.000 donne non optano liberamente per il part-time, lo subiscono.

Quanto agli ostacoli nell’ascendere a posizioni manageriali, il Censis (Centro Studi Investimenti Sociali) rileva che solo il 27% dei dirigenti sono donne, mentre la media europea sfiora il 34%. Non solo, più frequentemente rispetto agli uomini esse svolgono mansioni inadeguate rispetto al titolo di studio posseduto. 

Focalizzando l’attenzione su un settore specifico, quello delle banche, è interessante, rispetto alle cose sinora dette, quanto emerge da uno studio della First Cisl (sindacato di bancari e assicuratori), che prende in esame i 181mila dipendenti di 5 fra i maggiori istituti di credito italiani (Intesa S. Paolo, Unicredit, Monte dei Paschi, Banco Bmp, Ubi). Le donne sono numerose, 84mila, cioè il 47% del totale, ma il 28% lavora part-time (degli uomini solo l’1%). In parte anche da ciò deriva un divario di reddito fra uomini e donne pari a circa 10 punti percentuali, e la forte differenza di genere che si riscontra rispetto ai ruoli direttivi. Il 2% degli uomini raggiunge il livello più alto, e il 50% svolge mansioni di quadro intermedio. Le percentuali femminili sono rispettivamente lo 0,5% e il 30%. 

Le disparità di genere vengono accentuate e messe in evidenza nell’attuale periodo di emergenza sanitaria. Confrontando il secondo trimestre del 2020 con quello dell’anno prima, risulta che degli 841 mila posti di lavoro persi, la maggior parte, 470 mila, cioè il 56% circa, sono femminili. Elaborando i dati Istat, la “Fondazione Studi Consulenti del Lavoro”  cerca una spiegazione del fenomeno nel fatto che i settori in cui lavorano le donne sono proprio quelli maggiormente toccati dalla pandemia. Anche durante il lockdown infatti molte industrie, quelle considerate essenziali, hanno continuato a produrre. Si tratta di aziende in cui la manodopera è prevalente maschile. Viceversa hanno chiuso i battenti, o hanno subito fortissime limitazioni all’attività, alberghi, ristoranti, e imprese del settore turistico e ricettivo in genere, in cui le donne sono più del 50% della forza lavoro. Lo stesso è accaduto ai servizi di assistenza domestica, nei quali esse sono in stragrande maggioranza, quasi nove su dieci.

Tra i provvedimenti che il governo ha inserito nella legge di bilancio alcuni puntano specificamente al mondo del lavoro femminile, in particolare l’annullamento per due anni dei contributi (il cui onere graverà sullo Stato) per le ditte che assumono donne. Ma “Global Thinking Foundation”, che promuove l’uguaglianza di genere attraverso corsi di alfabetizzazione finanziaria destinati alle donne, guarda più lontano e suggerisce di prendere in considerazione i piani a lungo termine attivati nei servizi alla famiglia in Paesi non molto diversi da noi, come Spagna, Portogallo, Francia. 

Ognuno ha le sue ricette, ognuno sviluppa le sue analisi. Il mese scorso sette associazioni di donne hanno inviato una lettera al premier chiedendo di considerare la popolazione femminile “un investimento strategico”. Si chiede in particolare un potenziamento del welfare per l’assistenza ad anziani e disabili, un’attività che grava prevalentemente sulle donne, sottraendone gran parte al mercato del lavoro o alle iniziative imprenditoriali. 

Ma per facilitare l’accesso delle donne al lavoro e diminuire l’abbandono dovrebbero essere potenziati anche i servizi per l’infanzia. L’Istat ne ha censiti oltre 13 mila. In maggioranza si tratta di asili nido. Il resto sono centri per l’assistenza a bambini e genitori, spazi gioco e altro. Le strutture servono meno di un quarto dei bambini in età inferiore ai 3 anni, ben al di sotto del traguardo fissato dall’Unione Europea al 33%. Naturalmente in questo come in altri contesti, le situazioni divergono moltissimo da zona a zona. In alcune regioni, Val d’Aosta, Umbria, Emilia Romagna, Toscana, Trentino si raggiunge la quota Ue. Nel sud Italia si resta molto al di sotto.



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