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L’assegno di ricollocazione: un’alternativa ai sussidi che deve essere riformato

LUNEDÌ 02 AGOSTO 2021 | Lascia un commento
Foto L’assegno di ricollocazione: un’alternativa ai sussidi che deve essere riformato
Scritto da Gabriel Bertinetto

Nel gergo dei giuslavoristi si chiama “out-placement”. In altre parole, la ricollocazione esterna di lavoratori diventati “esuberi” nella loro azienda. L’origine del termine risale agli anni sessanta, quando l’ente spaziale americano Nasa si trovò alle prese con un problema non da poco: come aiutare a risistemarsi migliaia di persone rimaste senza lavoro dopo la chiusura del progetto Apollo.

L’out-placement è un processo al quale devono necessariamente collaborare diversi soggetti. C’è la ditta che intende licenziare una parte dei dipendenti, ci sono le ditte disposte eventualmente ad assumerli, e in mezzo un ente pubblico o privato che si attiva per facilitare il contatto fra chi espelle e chi potrebbe accogliere

In Italia spesso l’idea della ricollocazione professionale è guardata con sospetto dai diretti interessati, che temono si risolva in una trappola: intanto mi mandano via, poi vedono se riescono a piazzarmi altrove, magari con uno stipendio più basso… In alcuni casi però sembra avere funzionato. Un esempio recente viene dalla provincia di Bergamo, dove quasi metà dei dipendenti di un’azienda in crisi beneficeranno della ricollocazione presso altre ditte. O almeno, questo dice l’accordo firmato tra imprenditori e sindacati della “Bayer Corp Science” di Filago, specializzata in prodotti chimici per l’agricoltura.

La multinazionale tedesca nello scorso mese di maggio annunciò l’intenzione di chiudere lo stabilimento di Filago. La decisione era stata presa in base alla previsione di un forte calo della capacità produttiva, calcolata intorno al quaranta per cento. Per 46 lavoratori si prospettava un futuro senza lavoro, non appena fosse venuto meno il blocco dei licenziamenti che il governo aveva imposto durante l’emergenza sanitaria. Cosa che è poi effettivamente accaduta come è noto, alla fine di giugno, quando il divieto di licenziare è stato rimosso, seppure non per tutte le attività. 

Ma quando lo “sblocco” è arrivato, alla Bayer era ormai quasi definita l’intesa che sindacato e proprietà hanno poi firmato l’8 luglio. Parte dei dipendenti, quelli più anziani, riceveranno contributi per essere “accompagnati” alla pensione. Altri saranno reimpiegati in un’altra fabbrica del gruppo Bayer, a Garbagnate, che dista circa cinquanta chilometri da Filago. Ma il grosso, una ventina, verrà riassunto da altre società. Per ottenere questo Bayer ha dovuto attivarsi non solo nella ricerca dei nuovi datori di lavoro, ma anche metterci dei soldi. L’”out-placement” sarebbe una parola priva di effetti pratici, un semplice auspicio di re-impiego, se il soggetto che vi ricorre non prendesse impegni precisi.

Nel caso specifico Bayer ha preso a proprio carico metà del salario dei suoi ex-dipendenti nel primo anno che trascorreranno presso il nuovo posto di lavoro. Anche così si spiega la pronta risposta di ben 16 aziende che si sono dichiarate disposte ad assumere gli esuberi di Filago. Il finale di quella che sembra una storia con tutte le premesse per un esito positivo, non è ancora stato scritto. L’accordo risale a poche settimane fa, ma le rappresentanze sindacali sembrano fiduciose per un’iniziativa che, come afferma Ezio Acquaroli segretario della Filctem Cgil di Bergamo, va “nella direzione di ridurre l’impatto sociale” che la chiusura dello stabilimento avrà in zona.

Bayer si è mossa da sola, senza cercare sponde nell’amministrazione pubblica. Ma esistono percorsi di “out-placement” che prevedono l’intervento attivo dello Stato. Una legge del 2015 ha introdotto l’Assegno di Ricollocazione (AdR), un voucher che i lavoratori di un’azienda in crisi possono spendere per essere assistiti nella ricerca di un nuovo impiego. Non dunque un contributo in denaro, ma un “buono” utilizzabile solo per quello specifico scopo. 

In realtà l’applicazione pratica della legge non è stata facile e le norme sono state modificate nel corso degli anni, escludendo dal diritto all’AdR coloro che fruiscono del cosiddetto “Naspi” (l’indennità mensile di disoccupazione) ed includendo i beneficiari del Redito di Cittadinanza. Di fatto l’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive per il Lavoro) qualche mese fa ha comunicato che gli assegni di ricollocazione attivati erano solo 423 su un totale di 969 richiesti e concessi. Il ché significa che metà di coloro che l’avevano ottenuto non ne hanno poi fatto uso. 

Evidentemente qualcosa non funziona, e l’AdR dovrà essere profondamente riformato se si vuole che diventi uno strumento cardine delle politiche attive per il lavoro, come sembra essere nei piani governativi. Nell’illustrare al Senato le linee programmatiche dell’esecutivo da lui diretto, lo scorso 17 febbraio, il primo ministro Mario Draghi affermò infatti che per rendere operative le politiche attive per il lavoro bisogna “migliorare gli strumenti esistenti, come l’Assegno di Ricollocazione”. 

Non è solo il governo a puntare su questo meccanismo. Anche il Consiglio Nazionale dei Consulenti del Lavoro, in un documento presentato alcuni mesi fa al Ministro del Lavoro, spezza una lancia in favore dell’AdR, ma chiede importanti modifiche. Innanzitutto dovrebbe essere reso “obbligatorio”, e non facoltativo come è adesso, per tutti i disoccupati. In secondo luogo dovrebbe diventare “condizione imprescindibile” perché chi lo utilizza possa ricevere una delle varie forme di sussidio (dalla Cassa Integrazione al NASPI al Reddito di Cittadinanza). Inoltre bisognerebbe istituire delle modalità di valutazione periodica degli enti autorizzati ad assistere il fruitore di Adr. In altre parole i Centri per l’Impiego e gli altri soggetti privati impegnati nell’out-placement dovrebbero dimostrare di operare in maniera efficace, visto che incassano il “buono” che il disoccupato spende presso di loro. 

Altre proposte arrivano dall’AISO (Associazione Italiana Società di Outplacement), il cui presidente Cristiano Pechy suggerisce che le aziende autorizzate ricevano incentivi dallo Stato sotto forma di credito d’imposta. Il ragionamento alla base dell’idea è che lo Stato trae beneficio dall’out-placement, sempre che esso venga praticato su larga scala, perché risparmia sui sussidi che altrimenti dovrebbe distribuire alle persone che non vengono ricollocate e restano disoccupate. 

Qualche esempio a cui eventualmente ispirarsi si trova in Paesi membri dell’Unione Europea, come la Spagna, in cui il servizio di out-placement è obbligatorio nel caso di ristrutturazioni aziendali che interessino almeno 50 individui. L’obbligatorietà vige anche in Francia, dove i locali Centri per l’impiego ne appaltano l’attuazione alle agenzie private accreditate.



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