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L’economia verde crea lavoro: per Enrico Fontana, dirigente di Legambiente, il futuro “green” è già fra noi

LUNEDÌ 24 GENNAIO 2022 | Lascia un commento
Foto L’economia verde crea lavoro: per Enrico Fontana, dirigente di Legambiente, il futuro “green” è già fra noi
Scritto da Gabriel Bertinetto

L’economia verde non è solo il futuro, ma un processo già in atto nel nostro Paese, e fortissimo è l’impatto che il suo sviluppo sta avendo e ancora avrà sull’occupazione. Si diffondono professioni “green” come il Mobility Manager, l’Energy Manager, l’Eco-Designer, ma più in generale sono sempre più richieste specifiche competenze di tipo ecologico anche per chi svolge mestieri che in sé non hanno un immediato aggancio con la difesa dell’ambiente. Ce ne parla il dr. Enrico Fontana, che da moltissimo tempo si occupa di queste tematiche all’interno di Legambiente (www.legambiente.it)). In questa organizzazione è Responsabile dell’”Ufficio Raccolta Fondi”, dopo avere diretto in precedenza il settore “Economia Civile”.  

 

L’economia verde sembra attirare investimenti e offrire crescenti opportunità di lavoro. Come descriverebbe la situazione oggi In Italia rispetto al passato, dottor Fontana, in base alle conoscenze maturate in Legambiente come Responsabile per l’Economia Civile prima ed ora per la Raccolta Fondi?

Direi che lo scenario di fronte al quale ci troviamo è quello di un’economia in cui la transizione ecologica, l’innovazione e la creazione di posti di lavoro “green” sono il presente ancora più che il futuro. Non semplicemente qualcosa di desiderabile, ma un processo già in atto, che sta trasformando profondamente i mercati. Dalla mia lunga esperienza in Legambiente traggo la convinzione che sia questa la novità più significativa, il fatto cioè che si sia usciti dall’ambito degli auspici e delle speranze per entrare in una fase in cui l’economia verde è ormai attualità concreta. I numeri certificano questo fenomeno sia per quantità di investimenti pubblici e privati sia per livello di affidabilità dei medesimi, sia per quanto riguarda la crescita occupazionale, e ci consentono di guardare in prospettiva verso una sempre più decisa affermazione di un’economia sostenibile e creatrice di benessere. Con riferimento alla celebre definizione che l’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) diede dei “green jobs” nel 2013, come lavori che “aiutano a ridurre l’impatto negativo sull’ambiente, portando verso imprese ed economie sostenibili dal punto di vista ambientale, economico e sociale”, potremmo dire che oggi un numero molto più alto di lavori ha caratteristiche “verdi”, nel senso di contenere al proprio interno competenze in materia ecologica da parte di chi li svolge. Questo è un cambiamento radicale rispetto a un’epoca non lontana in cui possedere quelle competenze era un’eccezione, e nelle scelte produttive e occupazionali prevalevano altre logiche.

 

Dunque c’è un clima nuovo, una maggiore consapevolezza ecologica, e un approccio diverso da parte delle imprese?

Credo di sì. Ricordo bene quanto fossero difficili in passato le battaglie delle associazioni ambientaliste e il rischio dell’isolamento che correvano gli imprenditori che coraggiosamente investivano nell’economia verde. Oggi invece sono considerate universalmente le giuste scelte da compiere per affrontare la sfida dei cambiamenti climatici e uscire da una crisi che negli ultimi due anni oltre che economica è stata sanitaria e sociale, a causa della pandemia. Questa è la via, la traccia da seguire. E non a caso abbiamo ora un Ministero per la Transizione Ecologica, anche se siamo consapevoli che non basta cambiare il nome per avviare processi così importanti e complessi. Ma le cose avevano cominciato a muoversi già da prima. Direi che la svolta matura soprattutto nel corso del secondo decennio del secolo in cui viviamo. Ce ne siamo resi conto noi di Legambiente nel nostro rapporto con le aziende.

 

Cosa è cambiato? C’è maggiore interesse per le tematiche ecologiche nel mondo produttivo?

Non solo. Mentre prima la partecipazione imprenditoriale si manifestava soprattutto nello sponsorizzare certe iniziative verdi, oggi è assai più frequente il coinvolgimento diretto nei progetti, molto più diffuso il partenariato con il mondo imprenditoriale. E questo si realizza non solo in settori come l’agricoltura biologica, le energie rinnovabili, la bioplastica, ma anche in ambiti produttivi di altro tipo, nei quali ora gli imprenditori fanno della sostenibilità ambientale un criterio di scelta imprescindibile. Una spinta notevole è arrivata dal mondo del consumo. La crescente consapevolezza ambientale dei cittadini si manifesta nella richiesta di prodotti ecologici. Esiste una più ampia fetta di acquirenti disposti a spendere cifre ragionevolmente più alte pur di ricevere un’offerta qualitativamente migliore. Ne deriva fra le altre cose, un interessante mutamento del marketing aziendale, e una comunicazione che insiste sempre di più sugli aspetti eco-sostenibili dei prodotti offerti. In termini di impatto occupazionale, ciò genera il ricorso a figure professionali che vanno dagli “eco-designer”, che progettano prodotti o servizi innovativi e sostenibili, agli esperti, appunto, di marketing ambientale.

 

Dunque oggi chi si occupa di comunicazione aziendale e chi opera nel settore del media-marketing non può essere privo di conoscenze in materia ambientale?

Esattamente. Aggiungo che la diffusione di competenze verdi è cresciuta più in generale in molte aziende italiane, al di là di quelle direttamente riconducibili alla green economy. Sull’altro piatto della bilancia c’è il fenomeno negativo chiamato “green-washing”, cioè la tendenza ad utilizzare le proprie competenze “green” per enfatizzare gli aspetti eco-sostenibili dell’attività della propria azienda, sottacendo le criticità. Poiché, per così dire, l’ecologia “tira”, conviene evocare meriti ambientali più presunti che reali. Non a caso per contrastare questo fenomeno l’Unione Europea ha introdotto la cosiddetta tassonomia, con parametri concreti per misurare l’effettiva sostenibilità degli investimenti etichettati come “verdi”, anche se non mancano serie contraddizioni, come quella di voler inserire anche il nucleare e il gas. Non solo: come condizione per allocare le risorse finanziarie previste dai PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) dei vari Paesi membri, Bruxelles ha fissato anche per l’uso delle risorse pubbliche parametri e criteri rigorosi, che permettono di verificare non solo che gli investimenti effettuati con quei denari non danneggino l’ambiente, ma portino anche dei benefici, ambientali e sociali. 

 

Tra i cosiddetti “green jobs” ci sono quelli affidati a figure professionali, previste da normative che risalgono a trent’anni fa e che aziende private ed enti pubblici sono, in molti casi, obbligate ad assumere, come i Mobility Manager e gli Energy Manager. Cosa sono?

Il compito del Mobility Manager è di elaborare piani per la mobilità dei lavoratori o dei cittadini, in particolare per quanto riguarda i trasporti fra casa e luogo di lavoro, che garantiscano il più alto livello possibile di rispetto per l’ambiente. Ad esempio trovare forme organizzative che consentano un minore ricorso all’auto privata, un potenziamento del trasporto pubblico, etc. Una recente normativa, varata nel corso del 2020 ha dato nuovo impulso al reclutamento dei Mobility Manager, anche se la legge che gli aveva istituiti risale al 1991. Secondo le nuove linee guida l’obbligo di avere un Mobility Manager riguarda tutte le imprese con almeno 100 dipendenti e tutti i Comuni con popolazione superiore ai 50mila abitanti. Quanto agli Energy Manager, la loro missione è quella di ridurre i consumi energetici e favorire l’uso di fonti rinnovabili da parte delle aziende e degli enti pubblici in cui lavorano. Interessanti le cifre fornite dalla FIRE (Federazione Italiana per l’Uso Razionale dell’Energia). Gli Energy Manager nominati nel 2020 in Italia sono stati 2.463, di cui 1702 per obbligo di legge, con una crescita di oltre il 15% rispetto al 2014 ma con ampi margini di miglioramento, soprattutto nella pubblica amministrazione, e 761 per scelta volontaria, sia di imprenditori che di enti locali.

 

Poi ci sono mestieri non tipicamente “verdi”, per i quali si richiede sempre di più, come accennava prima, una maggiore connotazione “verde”. Può parlare di questo?

Un caso tipico è legato al cosiddetto “Superbonus”. I tecnici che preparano i progetti di ristrutturazione aventi diritto a un rimborso addirittura superiore alla spesa effettuata (110%), devono garantire il rispetto di criteri piuttosto severi, migliorando l’efficienza energetica degli edifici e sviluppando l’uso di energie rinnovabili. E quindi sono loro richieste competenze specifiche che consentano la scelta di materiali adeguati, un loro utilizzo in maniera eco-sostenibile e la capacità di valutarne non solo le prestazioni tecniche ma anche quelle ambientali. 

 

La sostenibilità deve essere favorita da scelte legislative adeguate. Cosa direbbe al riguardo?

L’Unione Europea ha svolto, con molte sue direttive, un ruolo fondamentale per promuovere la green economy e la riconversione di intere filiere produttive. Una di queste direttive ha ispirato la recente legge italiana, che mette al bando le plastiche mono-uso, risolvendo un problema ambientale e dando spazio sul mercato ad altri materiali, comprese, con una deroga ad hoc introdotta nella legge nazionale, le cosiddette bioplastiche, nella cui produzione il nostro Paese è leader in Europa. Sul piano critico, rifacendomi a un dossier preparato da Legambiente che si intitola significativamente “Scacco matto alle rinnovabili”, aggiungerei che se venissero realizzati gli impianti, dal fotovoltaico all’eolico offshore, per i quali sono giacenti richieste di connessione alla rete, avremmo risolto da tempo alcuni grossi problemi. Quali? Quelli legati al raggiungimento degli obiettivi previsti per il 2030 con almeno 70 Gigawatt (GW) di potenza da fonti rinnovabili, con le quali ridurre del 55% le emissioni di anidride carbonica rispetto ai livelli del 1990 e portare la copertura dei consumi elettrici da rinnovabili al 72%. Purtroppo ci si imbatte in lentezze burocratiche che ostacolano l’attuazione di molti progetti. Il Rapporto denuncia i vincoli e il deficit di regole chiare e uniformi sul territorio nazionale che tengono fermi al palo a volte anche per 5 o 6 anni impianti già autorizzati. Legambiente illustra 20 storie esemplari di questo tipo, con investimenti privati rilevantissimi che non trovano sbocco e molte opportunità di lavoro, nell’ambito dei green jobs, che si perdono. Ma lo stesso discorso riguarda la diffusione degli impianti per l’economia circolare, nella quale l’Italia vanta, numeri alla mano, primati europei, e l’efficace utilizzo delle tante risorse stanziate con il PNRR. Regole chiare, tempi certi, trasparenza e partecipazione dei cittadini consentirebbero di sbloccare la transizione ecologica del nostro Paese, con tutti i benefici che ne conseguono. E su questo c’è molto da fare, sia a livello nazionale che regionale.

 

Domanda secca: la Green Economy crea occupazione?

Sì. L’ultimo Rapporto “GreenItaly”, realizzato dalla Fondazione Symbola e da Unioncamere, rivela che un piccolo incremento c’è stato persino nel 2020, il primo anno della pandemia. Ma se noi consideriamo l’arco temporale compreso fra il 2014 e il 2020 l’occupazione verde è cresciuta del 6,8%. Altro dato importante: il numero delle imprese che in quel periodo ha investito nel “verde” è ingente, 441mila, e nel campo manifatturiero il 33% delle aziende. Se allarghiamo il campo d’osservazione dai mestieri tipicamente “green” a lavori per i quali sono richieste comunque competenze in quel campo, risulta che oltre il 78% dei contratti programmati dalle aziende nel 2019 hanno quella caratteristica. Lo si legge in uno studio effettuato da Legambiente insieme a Green Factor, in cui sono analizzate anche 55 diverse “professioni circolari”, da quelle che l’Istat classifica tra i “riparatori e manutentori” fino a mestieri che non ti aspetti, sui quali le conoscenze ecologiche possono avere un impatto importante. Insomma, dal meccanico che ripara le biciclette fino al barista e al barbiere, il modo di lavorare e la scelta degli strumenti e dei materiali può avere oppure no un carattere “verde”. E fare la differenza sulla possibilità di trovare lavoro. Per le figure più specializzate -pensiamo al mondo delle energie rinnovabili e non solo- esiste già un gap fra domanda da parte delle imprese e disponibilità di persone, soprattutto giovani, adeguatamente formate. 

 

L’attuazione del PNRR farà ulteriormente crescere i lavori “verdi”?

Le previsioni sono positive. Il piano stabilisce investimenti superiori ai 59 miliardi in progetti di economia eco-sostenibile, per la transizione energetica, la riqualificazione degli edifici, etc. L’impatto che si prevede abbia sull’occupazione l’insieme di tutti gli investimenti previsto dal PNRR è pari a un + 3,2% nel 2023 con punte del 5% per l’occupazione femminile e del 4,5% per quella giovanile nel meridione. La proiezione verso il 2026 fornisce dati ancora migliori. Ed è evidente, numeri alla mano, che un ruolo importante potrà giocarlo l’efficace e tempestivo utilizzo delle risorse destinate all’economia verde del nostro Paese, destinata soprattutto a favorire l’ingresso dei giovani, adeguatamente formati, sul mercato del lavoro. Giovani, che come stanno dimostrando in tutte le occasioni, chiedono a gran voce più coraggio e più coerenza.



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