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Le soluzioni del giuslavorista Ichino al rebus del mercato del lavoro: un bilancio di fine anno in chiaroscuro

LUNEDÌ 20 DICEMBRE 2021 | Lascia un commento
Foto Le soluzioni del giuslavorista Ichino al rebus del mercato del lavoro: un bilancio di fine anno in chiaroscuro
Scritto da Gabriel Bertinetto

Con Piero Ichino, docente di diritto del lavoro all’Università di Milano, tentiamo di tracciare un bilancio di fine anno sullo stato dell’economia italiana e del mercato del lavoro in particolare. Lo sguardo è rivolto anche al futuro e alle prospettive di miglioramento offerte dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), nel quale tuttavia, secondo il prof. Ichino, il capitolo dedicato alle politiche per il lavoro è troppo generico. Nell’insieme la situazione produttiva ed occupazionale nel suo complesso ricorda uno di quei difficili rebus di cui Ichino parla in un recente libro dedicato all’enigmistica: (L’ora desiata vola, Bompiani, 2021)

 

Nel suo ultimo libro (L’ora desiata vola, Bompiani, 2021) lei, prof. Ichino, spiega come si risolvono i rebus enigmistici. Vede un’analogia tra quelli che lei spiega nel libro e i rebus politici ed economici che il nostro Paese deve risolvere?
L’analogia sta in questo: che anche nel mondo della politica e dell’economia c’è una realtà apparente e una verità nascosta sottostante, che occorre saper leggere.

 

Un rebus piuttosto complicato è quello che l’Italia sta cercando di risolvere alle prese con i problemi provocati dalla pandemia. Qual è la realtà apparente e quale la verità nascosta, nel rebus dell’economia e del mercato del lavoro in questa fase di ripresa?
La realtà immediatamente percepibile è quella di dieci persone disoccupate ogni cento presenti nel mercato del lavoro, e addirittura di trenta giovani disoccupati ogni cento: quindi di una grave carenza di posti di lavoro. La verità nascosta è che le imprese stentano a trovare un dipendente ogni tre che stanno cercando: cioè che ci sono centinaia di migliaia di posti permanentemente scoperti.

 

E come si risolve questo rebus?
Ponendoci in condizione di costruire i percorsi – fatti di informazione, orientamento, formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti e misurata nella sua efficacia, assistenza alla mobilità professionale e anche geografica – che consentono a chi cerca un lavoro di conoscere e quindi candidarsi con successo ai posti disponibili: in questo consistono le politiche attive del lavoro. Ma è una materia sulla quale l’Italia è indietro di decenni rispetto ai maggiori Paesi del centro e nord-Europa.

 

Molte speranze sono riposte nel PNRR, il Piano di Nazionale di Ripresa e Resilienza, cioè nei fondi speciali che l’Unione Europea mette a disposizione dei Paesi membri per superare l’emergenza originata dalla diffusione del virus. Cosa possiamo aspettarci in particolare in rapporto alla crescita produttiva e occupazionale?
Il PNRR, con il solo suo annuncio, ha prodotto una fortissima inversione del trend congiunturale, un rimbalzo economico che probabilmente ci consentirà di recuperare le perdite di PIL causate dalla pandemia entro il prossimo anno. Però il capitolo del PNRR dedicato alle politiche attive del lavoro è molto, troppo generico; e troppo generico e astratto, a mio modo di vedere, è anche il decreto interministeriale destinato a dargli attuazione. Su questo terreno occorrerebbe più concretezza. E non occorrono tanto nuove norme legislative, quanto una molto maggiore capacità di implementazione di quelle vigenti.

 

Per usufruire dei finanziamenti europei l’Italia, così come gli altri Paesi, ha dovuto garantire l’attuazione di alcune importanti riforme. Come stiamo procedendo su questo terreno?
In alcuni campi mi sembra che stiamo procedendo bene: soprattutto in quello dello sviluppo digitale, ma anche in quello delle infrastrutture di trasporto – pur con qualche punto che offre il fianco a critiche –, in quello della transizione ecologica, forse anche in quello della giustizia. Vedo invece un ritardo preoccupante sul versante scolastico e su quello delle politiche attive del lavoro. 

 

Però una parte rilevante delle risorse del PNRR sarà destinata al potenziamento dei Centri per l’Impiego. Non pensa che può essere la volta buona per fare un grosso passo in avanti anche in questo settore?
Vede, il nostro problema è che in questo settore, dopo la bocciatura della riforma costituzionale del 2016, la competenza legislativa e amministrativa è rimasta interamente riservata alle Regioni; alla maggior parte delle quali mancano proprio le competenze basilari indispensabili per adempiere il compito. La soluzione dovrebbe consistere nella fissazione da parte dello Stato di alcuni standard minimi inderogabili, i Livelli Essenziali delle Prestazioni; poi l’Agenzia a ciò preposta – l’Anpal – dovrebbe intervenire in via sussidiaria in tutte le situazioni nelle quali l’amministrazione regionale si mostra non in grado di garantire quegli standard.

 

Ma per questo occorrerebbe che almeno l’Anpal stessa fosse all’altezza del compito.
Appunto. Questa agenzia nazionale è invece rimasta paralizzata per quasi due anni da un presidente che pretendeva di dirigerla dal Mississippi, poi è stata reincorporata nella struttura del ministero del Lavoro, così perdendo anche l’attitudine e la flessibilità necessarie per attrarre le competenze professionali indispensabili in relazione alle esigenze che via via si manifestano. Considero questo un errore; è indicativo di una mancanza di visione strategica su questa materia e di una rinuncia a far tesoro delle esperienze più positive dei nostri partner europei. L’unico vantaggio che abbiamo, con l’essere un Paese fortemente arretrato su questo terreno rispetto ai nostri partner, è la possibilità di sfruttare per così dire “parassitariamente” le loro esperienze migliori, in modo da superare in poco tempo il ritardo pluridecennale che ci separa da loro; ma in questo momento non vedo in casa nostra la determinazione e l’impegno necessari per un colpo di reni di questo genere.

 

Non la convincono i progetti per rendere più efficace la formazione professionale, che Lei ha sempre ritenuto essere uno dei fattori principali per vincere la disoccupazione?
Per rendere più efficace la formazione professionale occorrerebbe in primo luogo misurarne in modo capillare e sistematico la capacità di soddisfare le esigenze delle persone e delle imprese. Per questo occorrerebbe innanzitutto che venisse attuata l’anagrafe della formazione e che i dati così resi disponibili venissero incrociati con quelli delle Comunicazioni Obbligatorie al ministero del Lavoro, dell’iscrizione alle liste e albi professionali, nonché alle liste di disoccupazione: si potrebbe così rilevare, per ogni corso, il tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi, che è l’indice di qualità del servizio più efficace di cui possiamo disporre.

 

Ma per questo ci vorrebbe una legge che imponesse la rilevazione sistematica.
No, le norme legislative che la prevedono sono già in vigore da sei anni: sono contenute negli articoli da 13 a 16 del decreto legislativo n. 150 del 2015, uno degli otto decreti attuativi del Jobs Act. Solo che né le Regioni si sono peritate di darvi attuazione, né lo Stato ha ritenuto di doverlo esigere.

 

Si parla molto della necessità di modifiche al sistema di welfare. Siamo sulla buona strada?

La prima modifica che occorre, su questo terreno, consiste nel non mettere più al primo posto l’esigenza di mandare in pensione le persone indiscriminatamente prima del tempo, come continuano invece a chiedere prioritariamente le nostre confederazioni sindacali maggiori. La spesa sociale dello Stato non dovrebbe essere indirizzata a espellere precocemente le persone anziane dal mercato del lavoro, bensì a combattere la povertà infantile e la deprivazione della scuola, ad assistere le famiglie che hanno a carico persone non autosufficienti, a promuovere e assistere la maternità. Anche a combattere la povertà degli adulti; ma in questo caso stando molto attenti a evitare che il sostegno del reddito non diventi un incentivo all’uscita dal – o all’inerzia nel – mercato del lavoro: per questo occorre una condizionalità del sostegno del reddito, che non richiede tanto nuove norme legislative, quanto capacità di assistenza capillare e quotidiana, persona per persona.

 

Il blocco dei licenziamenti deciso durante la fase più acuta della crisi “Covid” non c’è più. Alcune aziende ne hanno approfittato per massicci licenziamenti, benché quelle stesse aziende spesso avessero beneficiato di generosi contributi governativi.
Guardi che i licenziamenti per chiusura dell’azienda non erano vietati neppure durante il blocco per l’emergenza Covid: se dunque negli ultimi mesi si sono verificati alcuni casi di questo genere, come quello della Whirpool napoletana, o quello della GKN fiorentina, ciò non è certo dovuto al fatto che sia venuto meno il blocco dei licenziamenti. Per altro verso, osservo che questi licenziamenti collettivi riguardano qualche centinaio di persone, mentre i giacimenti occupazionali inutilizzati di cui abbiamo parlato prima offrirebbero centinaia di migliaia di occasioni di lavoro: non dovrebbe dunque essere un problema drammatico costruire i percorsi di riqualificazione e riconversione necessari per riassorbire nel tessuto produttivo tutte le persone interessate. Operazione, oltretutto, necessaria per aumentare la produttività del lavoro.

 

In che senso?
Se un’azienda chiude, è quasi sempre perché essa fa registrare un qualche difetto di produttività. Quando questo accade, i sindacati e le forze politiche solitamente si affannano a sostenere il contrario, affermando che l’azienda funzionava benissimo e che il suo problema è costituito solo dall’incapacità del management; ma in questo modo sindacati e forze politiche incoraggiano le persone interessate ad aggrapparsi con le unghie e coi denti a una struttura che per lo più non è in grado di valorizzare al meglio il loro lavoro. E poiché accade frequentemente che questa difesa della vecchia struttura abbia successo, il risultato è che si tiene in vita una struttura nella quale la produttività del lavoro è più bassa di quello che potrebbe essere. Se vogliamo aumentare la produttività del lavoro degli italiani, invece, dobbiamo incentivare e sostenere la transizione delle persone dalle strutture meno produttive a quelle più produttive, che cercano e non trovano il personale di cui hanno bisogno.

 

Già, ma sostenere questa transizione è molto costoso.
Se è per questo, è molto più costoso tenere le persone in cassa integrazione a zero ore per anni e anni, come siamo soliti fare. Pensi ai dipendenti della Whirpool: se invece di tenerli per un lustro intero in freezer avessimo attivato tempestivamente i percorsi necessari per porli in condizione di accedere ai posti di lavoro che restano scoperti per mancanza di offerta, anche ipotizzando percorsi lunghi e impegnativi, anche offrendo loro un’indennità di formazione pari al cento per cento dell’ultima retribuzione, questo ci sarebbe costato molto meno di quello che abbiamo speso.

 

I sindacati, invece, paiono restii in alcuni casi a esplorare soluzioni che implichino il ricollocamento dei lavoratori. Come valuta questo atteggiamento?
Non sempre e non tutti i sindacati assumono questo atteggiamento. Ma per incoraggiare l’atteggiamento giusto occorrerebbe che la rete dei servizi al mercato del lavoro funzionasse molto meglio di come funziona oggi. È proprio il suo difetto di funzionamento che genera il circolo vizioso tra paura del mercato da parte dei lavoratori, aumento dei costi di separazione a carico delle aziende, abbassamento del rendimento richiesto per mantenere il posto, riduzione della produttività media del lavoro, riduzione della mobilità delle persone, maggiore difficoltà di trovare un nuovo lavoro quando si perde il vecchio.

 

Quali voci metterebbe in risalto se dovesse fare un ipotetico bilancio consuntivo per il 2021 e preventivo per il 2022, in materia di politiche economiche e per il lavoro?
Nel bilancio consuntivo del 2021, in materia di lavoro, se si esclude il forte recupero dei livelli occupazionali – che però è interamente dovuto alle politiche macroeconomiche espansive e non a un potenziamento delle politiche attive del lavoro, che non c’è stato – non vedo molte voci positive. Quanto al bilancio preventivo per il 2022, una nota molto positiva è costituita a mio avviso dalla previsione, contenuta nel disegno di legge del Governo in materia fiscale, di una detassazione selettiva dei redditi di lavoro femminile. Il testo legislativo parla in proposito di detassazione del “secondo reddito familiare”, ma la misura è sostanzialmente mirata a sostenere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro: una “azione positiva” mirata ad aumentare il nostro tasso di occupazione femminile, innaturalmente basso rispetto alla media dei Paesi OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), che costituisce oltretutto un inadempimento dell’impegno assunto in proposito dall’Italia con il trattato di Lisbona del 2000.



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