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Malattie professionali, casi in aumento

MERCOLEDÌ 26 AGOSTO 2020 | Lascia un commento
Foto Malattie professionali, casi in aumento
Scritto da GABRIEL BERTINETTO

Ogni estate l’INAIL (Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro) pubblica un’analisi documentata degli infortuni e delle malattie professionali, mettendo a confronto i dati dell’anno trascorso con quelli degli anni precedenti. L’ultimo rapporto, uscito a metà luglio, descrive la situazione maturata nel corso del 2019. Ne emergono alcuni elementi significativi. In primo luogo una sostanziale stabilità nel numero degli infortuni rispetto al 2018, a fronte di un calo considerevole di quelli con esito mortale. Secondariamente, si rileva un notevole aumento  delle denunce di malattia professionale

Quest’ultimo fenomeno, apparentemente negativo, viene interpretato dall’Inail come il frutto di una maggiore attenzione generale verso il nesso fra alcune patologie ed ambienti lavorativi malsani. In altre parole oggi, rispetto al passato, ci si rassegna meno all’idea che certe infermità siano casuali o inevitabili, e non invece la conseguenza diretta dell’esposizione ad agenti patogeni la cui azione viene favorita da condizioni lavorative non idonee. Per usare le parole del presidente dell’Istituto, Franco Bettoni, “l’emersione del fenomeno è ascrivibile sia alle campagne di sensibilizzazione sulla tutela assicurativa, sia agli interventi normativi che hanno ampliato l’elenco delle malattie che godono della presunzione legale di origine lavorativa”. 

Qualche cifra, cominciando proprio dalle malattie professionali. Le denunce registrate dall’INAIL nel 2019 ammontano a 61.201. Il numero si riferisce alle malattie e non ai soggetti ammalati, che risultano essere circa 44mila, dato che alcuni individui sono stati colpiti da più di una forma morbosa. L’incremento rispetto al 2018 sfiora il 3%. La curva che descrive l’andamento del fenomeno negli anni precedenti mostra un unico movimento verso il basso nel 2017. Per il resto l’ascesa è continua e persino impetuosa. Basti dire che nell’ultimo decennio le malattie professionali (o per meglio dire le denunce relative) sono cresciute del 40 per cento.

Piuttosto diffusi oltre a vari tipi di tumore, i problemi dell’udito e dell’apparato respiratorio, con una percentuale variante tra il 5 e l’8% per ciascuna categoria rispetto all’ammontare complessivo delle patologie denunciate. Ancora più frequenti le malattie nervose (quasi il 14%) e soprattutto l’ampia gamma di malattie del sistema ostro-muscolare e del tessuto connettivo, che fanno la parte del leone con oltre i due terzi del totale.

Ma se restringiamo il campo d’osservazione ai casi letali, spicca l’altissimo numero di decessi provocati da silicosi ed asbestosi e dalle loro complicanze cancerogene. E’ l’onda lunga dell’esposizione all’amianto (tutti ricordiamo in particolare la terribile vicenda degli stabilimenti Eternit nel Monferrato) che continua a mietere vittime, anche se, fortunatamente, il trend è in calo. Su 1018 morti nel 2019, ben 212 sono dovute a silicosi o asbestosi, ma ancora nel 2015 erano state 560. 

Quanto agli infortuni, non tranquillizza scoprire (citiamo dal testo della relazione) che nonostante “i numerosi e autorevoli richiami del Capo dello Stato” non ci sia ancora stato “un deciso cambio di passo” nel contrasto al “dramma degli incidenti sul lavoro”. Troppo facile vedere il bicchiere mezzo pieno nella modesta contrazione registrata nel 2019: 596 in meno rispetto ai 645.399 del 2018. Siamo ancora ben al di sopra del numero di infortuni che venivano denunciati nel 2015 o nel 2016, e sarebbe prematuro ipotizzare un trend discendente solo perché per due anni di fila (2018 e 2019) si sono registrate lievissime flessioni, rispettivamente dello 0,24% e dello 0,09%. 

Più netta è invece la diminuzione degli episodi mortali: l’8,5% in meno nel 2019 rispetto all’anno prima. Se escludiamo dal conteggio gli incidenti “in itinere”, cioè lungo il tragitto casa-lavoro, il calo è ancora più deciso, oltre il 17%. Questo è particolarmente importante perché indicherebbe una diminuita pericolosità degli ambienti di lavoro, considerando che gli infortuni “in itinere” sono perlopiù incidenti stradali di cui non è direttamente responsabile il datore di lavoro. Va aggiunto però che nel 2018 i casi mortali erano saliti esattamente nella stessa misura in cui poi scesero l’anno seguente.

Il bombardamento numerico al quale a volte ci sottoponiamo allo scopo di comprendere meglio la realtà che ci circonda, è spesso effettivamente chiarificatore. Ma l’utilizzo dei numeri rischia di risultare fuorviante, se si prescinde dal contesto generale in cui si situa il fenomeno misurato dai calcoli matematici. Ne troviamo un esempio particolarmente evidente proprio in materia di infortuni sul lavoro, se fermiamo l’attenzione su quanto è accaduto nel primo trimestre del 2020.

Dal confronto fra i primi tre mesi dell’anno in corso e gli stessi mesi del 2019, emerge una drastica innegabile diminuzione. I casi di infortunio verificatisi sul luogo di lavoro, fra gennaio e marzo del 2019, furono quasi 135 mila, e solo poco più di 113 mila nel medesimo periodo del 2020. Il calo è notevole: circa il 16%. Ancora più marcato il divario, per quanto riguarda i casi registrati in itinere, cioè lungo il percorso casa-lavoro: da 22.768 a 17.477 (meno 23%).

Un marziano sbarcato sul pianeta Terra, ignaro delle nostre dinamiche storiche, sociali, economiche, non capirebbe la ragione di un’evoluzione così sorprendente, visto che risalendo indietro nei decenni non si incontrano scostamenti tanto consistenti. Noi che sulla Terra viviamo, sappiamo invece che a distinguere il primo trimestre di quest’anno dallo stesso arco temporale del 2019 è l’irrompere della pandemia ed il conseguente arresto di gran parte delle attività lavorative.

Se infatti puntiamo l’obiettivo sull’ultimo di quei tre mesi, marzo, la dimensione del distacco diventa impressionante. Marzo è il mese in cui quest’anno prese il via il lockdown. Ebbene in marzo gli infortuni sul luogo di lavoro e quelli in itinere sono diminuiti rispetto allo stesso mese del 2019 rispettivamente del 41,4% e del 61,3%. E’ evidente che questa brusca discesa non può essere imputata ad un improvviso miglioramento delle condizioni di sicurezza nelle fabbriche, negli uffici, nei campi o nelle strade.

E poiché il discorso ci ha portato in zona Coronavirus, vale la pena segnalare come il Covid-19 contratto sul luogo di lavoro sia catalogato come “infortunio” e non come “malattia professionale”. Non si tratta di una mera distinzione terminologica. L’attribuzione all’una o all’altra specie corrisponde a un diverso trattamento assicurativo e a diverse procedure per la corresponsione delle relative indennità. In soldoni, è assai più agevole essere risarciti per il danno subito nel caso di infortunio che non nel caso di malattia. Sono questioni giuridiche un po’ complesse, ma in sostanza mentre la condizione che rende indennizzabile un infortunio è l’”occasione di lavoro”, per la malattia è necessario che sia stata contratta “nell’esercizio e a causa dell’attività lavorativa”. 

La scelta fatta a questo riguardo dal governo nel decreto Cura Italia del 17 marzo 2020, è stata recepita dall’INAIL equiparando la causa “virulenta” dell’infezione Covid 19 alla causa “violenta” propria degli infortuni. Fra marzo e luglio l’INAIL ha già ricevuto più di 51mila denunce per contagi “virulenti” sul luogo di lavoro. Di queste, poco meno di 300 riguardano casi mortali. Un dato difficilmente interpretabile al momento è che oltre quattro quinti dei morti sono uomini, mentre il grosso delle denunce complessive, più del settanta per cento, è femminile. 

Come è facile immaginare, i luoghi di lavoro in cui è stato contratto il Covid sono in prevalenza (80%) ospedali, case di cura, cliniche, residenze per anziani e disabili. In seconda posizione i servizi di vigilanza o pulizia, i call-center, industrie, alberghi e ristoranti.



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