Registrati subito per non perdere nuove offerte di lavoro!
REGISTRATI
Blog e News

Meno mismatch laurea-lavoro dove le imprese innovano

GIOVEDÌ 06 AGOSTO 2020 | Lascia un commento
Foto Meno mismatch laurea-lavoro dove le imprese innovano
Scritto da GABRIEL BERTINETTO

Intervista al sociologo Sergio Scamuzzi

Sergio Scamuzzi, docente di Sociologia all’Università di Torino, illustra in questa intervista alcune questioni riguardanti il rapporto fra formazione universitaria e mercato del lavoro: dal cosiddetto mismatch (discordanza) fra titolo di studio e impiego, sino alla crescente collaborazione fra atenei e imprese che genera maggiori prospettive di occupazione per gli studenti. Fra i temi dei corsi condotti dal professor Scamuzzi sono l’innovazione sociale, lo sviluppo locale, il mercato del lavoro, le disuguaglianze.

 

D) Professor Scamuzzi, una peculiarità negativa del mercato del lavoro in Italia è il “mismatch” (discordanza) fra titolo di studio conseguito e attività effettivamente svolta. Lei ha studiato il problema. Cosa ci può dire al riguardo?

R) Diciamo che è un’affermazione che va presa con le pinze ed argomentata. Di solito chi l’enuncia ha in mente persone laureate che svolgono lavori per i quali non è richiesta la laurea, e allora lo scartamento effettivamente c’è, ma riguarda di solito minoranze. E’ vero in linea di massima che ci sono pochi laureati in discipline scientifiche e troppi in materie umanistiche. Ma questo era molto più vero in passato che non ora. Prendiamo il caso dei laureati in Giurisprudenza che per il loro numero eccessivo spesso non trovano sbocchi professionali adeguati. Altrettanto dicasi per gli architetti. E’ noto che in rapporto alla popolazione o al numero degli edifici, abbiamo in Italia molti più architetti che in qualunque altro Paese al mondo. Per qualche tempo è accaduto lo stesso anche nel settore dell’insegnamento scolastico, ma in questo caso il problema è piuttosto il precariato che non il transito ad impieghi meno qualificati. Insomma per tornare alla domanda, la risposta è sì, c’è stato del vero.

 

D) Oggi invece? 

R) Oggi capita ad esempio che nell’Italia del nord sia fortissima la domanda di informatici, ma le aziende faticano a trovare quel tipo di personale specializzato, così come è alta in tutto il Paese la domanda di infermieri, in parte perciò provenienti dall’estero. Poniamoci però un interrogativo: se avessimo molti più laureati STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics), siamo certi che il sistema economico li assorbirebbe? Il vero problema è che l’Università produce laureati STEM in rapporto a un mondo imprenditoriale in cui l’innovazione non è uniformemente diffusa. I laureati trovano sbocchi professionali adeguati in contesti produttivi in cui le aziende innovano. Se noi riduciamo tutto a una questione di insufficiente quantità di laureati STEM, trascuriamo l’altro aspetto della realtà che è costituito dalle caratteristiche del mercato del lavoro. L’università è responsabile per quanto riguarda l’offerta di persone formate, ma poi se c’è carenza di domanda rispetto a certe qualifiche, questo riguarda il mondo imprenditoriale. Voglio fare un altro esempio. In un Paese come l’Italia, ricco di bellezze artistiche e paesaggistiche, non potevano non nascere corsi e “master” di Scienze Turistiche e in Beni Culturali. Questi però rischiano di produrre esperti con competenze superiori alle esigenze di un settore turistico poco innovativo, senza contare che è scarsa la spesa pubblica sulla cultura. Troppi laureati? Non dimentichiamoci che siamo ultimi in Europa per quantità di laureati. Forse gran parte del problema italiano è che imprese e pubbliche amministrazioni sono solo in parte innovative e poco sviluppate. 

 

D) Qualche volta si pensa di ridurre lo squilibrio tra formazione universitaria e attività lavorativa ricorrendo al numero chiuso nelle iscrizioni agli atenei.

R) E’ una leva utilizzabile, ma a parte l’aspetto eticamente discutibile, non è detto che sia efficace. Serve in alcuni casi, in altri no. Può servire se si vuole salvare la qualità dell’insegnamento in rapporto alla carenza di risorse. Poiché molti atenei sono alle prese con disponibilità finanziarie in calo, e quindi sono costretti a tagliare le spese per organici, locali, strumenti didattici, il numero chiuso consente a volte di fornire un insegnamento adeguato a una porzione ridotta di utenti, anziché dare a un universo più ampio un’offerta educativa insufficiente. Se però il numero chiuso viene considerato un mezzo per modellare l’offerta formativa alle effettive esigenze dell’economia, si rischia di fallire, perché è tecnicamente molto difficile prevedere le dinamiche del mercato del lavoro. Chi parla di numero chiuso universitario, pensando che in questo modo non ci saranno disoccupati o sottoccupati, ha in mente un’idea statica dell’organizzazione sociale e produttiva. Solo in una struttura politico-economica burocratizzata, ad esempio, si può pensare di bloccare a un certo livello il numero delle iscrizioni alle facoltà magistrali in maniera da garantire un posto di docente a ciascun laureato. Nei nostri corsi universitari per l’abilitazione all’insegnamento il numero chiuso viene misurato sul calcolo presuntivo delle necessità didattiche in questa o quella zona del Paese, ma questi calcoli sono spesso squilibrati. Prendiamo poi in considerazione le professioni sanitarie. La scelta del numero chiuso nelle facoltà di Medicina viene a volte giustificata con l’intenzione di evitare un sovrappiù di dottori rispetto alle esigenze ospedaliere. Oggi però la realtà è semmai la carenza di specialisti in molte aree terapeutiche. Ma docenti, aule, laboratori, reparti sono appena sufficienti per i numeri attuali.

 

D) Si diffondono i corsi universitari organizzati con la compartecipazione di imprese interessate a certi specifici progetti. Ce ne sono in Puglia dove il Politecnico di Bari collabora con aziende locali nella ricerca sulle tecnologie per i motori aeronautici, a Torino dove il Politecnico sviluppa insieme a specifici soggetti imprenditoriali gli studi sulle tecnologie digitali applicate all’industria manifatturiera, etc. Sono casi isolati? Come valuta queste esperienze?

R) Non sono fenomeni episodici. Sono una tendenza. Avere rapporti di interazione con il mondo produttivo è diventato un “must” (obbligo) per tutti i principali atenei del nord Italia e per una parte di quelli del centro-sud. I primi a chiederlo sono gli studenti stessi. E’ anche questione di giustizia sociale. Solo un’università di élite non ha bisogno di stabilire rapporti con le aziende, perché per gli studenti quei rapporti già ci sono a livello familiare. La realtà odierna è assai diversa. Due terzi dei laureati sono figli di non laureati. Il mondo del lavoro dei figli non è più quello dei padri e delle madri. L’esigenza di canali di collegamento fra studio e lavoro è molto sentita. Le imprese più avvedute hanno capito che la collaborazione con le università conviene anche a loro. Ci sono naturalmente anche quelle meno innovative, o con tipi di lavorazioni meno qualificate, che danno un contributo notevole a quel “mismatch” laurea-lavoro di cui si diceva prima. Ci sono anche datori di lavoro che sono rimasti ancorati all’immagine della vecchia università nelle loro pratiche di reclutamento. Questo significa ad esempio credere che alla tua azienda servano solo i laureati in ingegneria o in economia (o in diritto nella pubblica amministrazione). Così non si tiene conto che l’insegnamento è cambiato e che un approccio interdisciplinare è necessario alle nuove sfide. Ci sono laureati in filosofia o in sociologia che hanno competenze in statistica o in informatica o in management. Spesso i datori di lavoro scoprono che la compresenza di vari filoni formativi nel bagaglio culturale di un potenziale dipendente è preferibile a una iper-specializzazione mono-tematica.

 

D) Ha esperienza diretta di questa collaborazione università-impresa? E come quantificherebbe il contributo che essa sta dando agli sbocchi professionali dei laureati che escono da quel tipo di corsi, considerando che secondo l’Istat, su scala nazionale, dei 2 milioni di laureati in età compresa fra 20 e 34 anni, resta disoccupato il 73,7%%

R) Posso dire di avere sperimentato questo genere di rapporto didattico nei miei insegnamenti di innovazione sociale e società della rete in corsi di laurea denominati ICT e Media all’Università di Torino. La formula vincente è stata la fusione di informatica e ricerca sociologica, economica, giuridica. Hanno dato il loro sostegno molte imprese presenti in regione, alcune grandi come Telecom, ma molte piccole e medie. Il 90% di coloro che si sono laureati dopo avere seguito questi corsi hanno trovato lavoro. Ma non siamo un caso isolato, né a Torino né altrove su questo come su altri mix disciplinari (food, biotech, marketing, design). Dati di una fonte indipendente, “Alma Laurea”, possono fornire una mappa.

 

D) C’è un settore produttivo in cui il “mismatch” fra formazione e occupazione non si dovrebbe manifestare ed è quello dell’industria fortemente automatzzata, anche detta 4.0. Lì semmai vengono meno i posti di lavoro meno qualificati, mentre dovrebbe esserci grande richiesta di persone con titoli di studio molto specialistici. E’ così?

R) L’automazione effettivamente sostituisce e cancella molti impieghi di carattere prettamente esecutivo. Se è una minaccia, essa non riguarda tanto le prospettive di lavoro dei laureati. E tuttavia il progresso dell’intelligenza artificiale aggredisce sempre di più anche mansioni di tipo decisionale che comportano la scelta fra alternative e non la mera messa in pratica delle disposizioni ricevute. Aggiungiamo però che l’automazione, come tanti altri fenomeni, ha varie facce. Una è il suo costo iniziale elevato, che spaventa gli imprenditori meno disposti a cambiamenti organizzativi e tecnologici, o impegnati in produzioni a più basso valore aggiunto - ahimè molti in Italia - inducendoli a pensare che sia meno dispendioso continuare a produrre alla vecchia maniera. Laddove si impone, l’industria 4.0 elimina mansioni di tipo tradizionale, ma nemmeno l’intelligenza artificiale più perfezionata può funzionare da sola. Necessitano tecnici capaci di controllare il processo produttivo, individuare criticità, proporre soluzioni, riprogrammare. Per lo più sono laureati in informatica o studi gestionali. Certo il saldo complessivo dell’automazione può diventare negativo dal punto di vista dei livelli occupazionali in una economia come la nostra.



LinkedIn
Whatsapp
LASCIA UN COMMENTO
Acconsento al trattamento dei miei dati personali in conformità alle vigenti norme sulla privacy. Dichiaro di aver letto e accettato l'informativa sulla privacy
INVIA COMMENTO