Registrati subito per non perdere nuove offerte di lavoro!
REGISTRATI
Blog e News

Speranze e timori dei lavoratori italiani in uno studio della Fondazione Di Vittorio. Parla il presidente Francesco Sinopoli

MARTEDÌ 09 APRILE 2024 | Lascia un commento
Foto Speranze e timori dei lavoratori italiani  in uno studio della Fondazione Di Vittorio. Parla il presidente Francesco Sinopoli
Scritto da Gabriel Bertinetto

Da trent’anni in Italia il lavoro non è più al centro dello sviluppo economico e sociale, e i lavoratori subiscono il peso delle carenze dello Stato e dei privati quanto a formazione ed ammodernamento tecnologico. Per correggere la rotta servono scelte coraggiose che pongano il vincolo ambientale come criterio discriminante e investano sulle persone anziché comprimere i salari per compensare la mancanza di iniziative sul terreno dell’innovazione. Queste alcune delle valutazioni espresse nell’intervista rilasciataci da Francesco Sinopoli, presidente della Fondazione Di Vittorio, il centro studi della CGIL. A sostegno delle sue tesi Sinopoli porta i risultati di una ricerca della Fondazione, intitolata “Inchiesta sul Lavoro”, pubblicata da Futura Editrice. L’obiettivo della ricerca -secondo il curatore Daniele Di Nunzio- era “indagare le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori partendo dalla loro esperienza e dal loro punto di vista per comprenderne i bisogni e le aspettative”.

Oltre agli aspetti oggettivi della condizione lavorativa in Italia, lo studio della Fondazione Di Vittorio che lei presiede ne illumina gli aspetti soggettivi, cioè i modi in cui essa viene percepita e valutata dagli interpellati. Più di un terzo denuncia scadenze di impegni troppo serrate; metà lamenta di non poter scegliere gli orari; un terzo non riesce a conciliare lavoro e vita privata; il 65% sente il peso dello stress. All’attenzione verso i problemi per così dire “tradizionali” (retribuzione, fatica fisica) si affianca una sensibilità di tipo “psicologico”. Dobbiamo vedere in questo il segno che il mondo del lavoro è cambiato dr. Sinopoli?

Per rispondere devo fare una precisazione. La nostra ricerca non è frutto di  sondaggio, ma di un’inchiesta vera e propria rispetto alla quale gli intervistati sono allo stesso tempo destinatari e soggetti partecipi. Le nostre reti di delegati ed iscritti hanno coinvolto decine di migliaia di lavoratori intorno a una densa mole di temi elaborati nell’arco di ben 55 domande che richiedono almeno un ora per rispondere. Abbiamo insomma utilizzato un metodo di indagine che tendeva a rendere le persone parte attiva. Anche per questo è stato possibile approfondire tante dimensioni diverse della questione lavoro. In realtà non credo sia di per sé una novità il fatto che accanto all’aspetto retributivo i lavoratori rilevino l’importanza di problemi inerenti ai carichi e ai tempi delle loro prestazioni, alla ripetitività delle funzioni, al peso delle mansioni dequalificanti, etc. Il lavoro è parte della vita e attiene alla condizione umana. Piuttosto dobbiamo notare che da trent’anni stiamo assistendo ad un processo di ri-mercificazione del lavoro. Nel corso del secolo passato attraverso lo sviluppo di organizzazioni sindacali e movimenti sociali e politici c’era stato un progressivo allargamento dei diritti individuali e collettivi nei luoghi di lavoro che ha corrisposto ad un rafforzamento della democrazia nel nostro paese. Questo processo non solo si è arrestato ma da almeno trent’anni assistiamo ad un restringimento, una oggettiva svalorizzazione del lavoro. E non sorprende allora che i lavoratori percepiscano le condizioni di lavoro come gravose e nelle interviste un quarto di loro definisca insufficienti le misure per la sicurezza nella loro azienda, il 40% lamenti la quasi totale assenza di investimenti per l’innovazione tecnologica e una percentuale analoga denunci l’inerzia dei loro dirigenti sul fronte delle iniziative che possano incidere positivamente sull’ambiente.

 

Dalle risposte risulta l’esistenza di situazioni, che seppure minoritarie sembrano abbastanza diffuse. Il 18% dice che sono aumentate le ore di lavoro, ma non la paga, mentre per il 5% la paga è addirittura diminuita. Il 14% denuncia la mancata retribuzione degli straordinari. Quello che colpisce è che ciò avviene in aziende con più di 15 dipendenti, maggiormente vincolate a leggi, regolamenti, tutele e controlli. Che può dire su questi fenomeni di sostanziale illegalità?

Effettivamente l’inchiesta porta alla luce molte scomode verità, ed è una ragione per cui pensiamo di proseguirla e trasformarla in un’iniziativa permanente. La frequenza delle violazioni o elusioni degli obblighi di legge rientra nell’ambito di quella tendenza alla svalorizzazione del lavoro di cui parlavo. Quando attacchi il diritto ad un’equa retribuzione mini la base stessa dello scambio contrattuale su cui il rapporto di lavoro si basa. Il problema è che la competizione produttiva è sempre più sbilanciata sul versante del contenimento dei costi anziché su quello dell’innovazione tecnologica. In Italia i salari sono sostanzialmente fermi al 1993 ed il potere d’acquisto fra il 1990 e il 2020 è calato del 2,9% mentre la media dell’area euro registra al contrario una crescita del 22,6%! Si attribuisce ai lavoratori la responsabilità della scarsa produttività che a sua volta giustificherebbe i bassi salari. Ma la poca produttività è figlia degli scarsi investimenti nella ricerca e tecnologia, delle caratteristiche della nostra specializzazione produttiva, della scarsa attenzione alla formazione, della totale assenza di una qualche forma di politica industriale. I lavoratori non hanno paura dell’innovazione; semmai, come rivela l’inchiesta, si aspettano maggiori interventi in quel senso da parte delle loro aziende. 

 

Per il 68% degli intervistati l’impegno prioritario delle organizzazioni sindacali dovrebbe riguardare le retribuzioni. Nel dibattito economico, come lei sottolineava, Il tema salariale è spesso collegato a quello della produttività come variabile dipendente da quest’ultima. In altre parole i salari in Italia sono bassi perché bassa è la produttività del lavoro. Dalla sua risposta precedente sembra evidente che lei non sia d’accordo.

Rispondo affrontando l’argomento in una prospettiva storica. A lungo lo sviluppo in Italia ha avuto per motore l’intervento pubblico e alcune importanti aziende statali all’interno di una idea di sviluppo, per molti versi oggi discutibile ma senza dubbio associata ad una politica industriale. Ciò che è avvenuto all’inizio degli anni novanta con gli eventi concatenati, dalla crisi del ’92 alle privatizzazioni, ha avuto l’effetto di uno tsunami sul nostro sistema produttivo. Contemporaneamente la politica di moderazione salariale con l’obiettivo di contenere la dinamica inflattiva precedente l’ingresso nella moneta unica avrebbe dovuto essere accompagnata da quella parte di quelle intese che prevedeva massicci investimenti pubblici e privati nella ricerca oltre che nel contenimento di prezzi e tariffe. Invece si è agito solo sul versante della compressione salariale e si è fatto ben poco sul fronte dell’innovazione. Le prassi concertative non a caso erano ispirate a quelle messa in opera a partire dagli anni cinquanta e sessanta nei Paesi scandinavi. Anche lì si decise di frenare la crescita salariale per contenere i prezzi e favorire le esportazioni, ma questo si accompagnò ad una politica “keynesiana” di forti investimenti pubblici. Niente di tutto ciò è avvenuto da noi, ed è un errore perché il mercato abbandonato a se stesso non funziona e servono interventi statali che orientino le politiche industriali verso la produzione di beni ad alto valore aggiunto. Il fallimento delle scelte effettuate in Italia è sotto gli occhi di tutti.

 

Interessante è il modo in cui i lavoratori immaginano il loro avvenire. Il 68% prevede un calo dell’occupazione, il 18% delocalizzazioni, il 17% chiusure aziendali. Questi pronostici stridono con i dati Istat secondo cui negli ultimi due anni l’occupazione è cresciuta. Troppo pessimisti gli intervistati? O forse lungimiranti nel senso che guardano oltre la situazione contingente e leggono nel futuro? 

Bisogna capire di quale tipo di occupazione stiamo parlando. Quelli che crescono sono perlopiù i contratti a termine. Rapporti di lavoro che dovrebbero servire ad affrontare certe fasi del ciclo economico tendono a diventare strutturali. E intanto perdura la crisi dei settori industriali maturi. La via d’uscita starebbe nell’affrontare l’inevitabilità delle riconversioni imposte dai cambiamenti climatici. Esse sono la chiave per ri-orientare e preservare il nostro sistema produttivo, e sono la risposta alle paure che i lavoratori esprimono rispetto al futuro se percepiscono che i cambiamenti avvengono attraverso processi guidati, con il necessario supporto in termini di formazione, di investimenti. Dall’inchiesta emerge anche la consapevolezza che le trasformazioni legate alla digitalizzazione ed all’intelligenza artificiale avranno un forte impatto sul mondo del lavoro. La risposta a quei timori comporta la capacità di offrire un orizzonte economico e umano nel quale il lavoro sia posto alla base dello sviluppo. Non ci si può accontentare soltanto di accontentare il mercato. Anche sul terziario e le reti servirebbe un ragionamento analogo.

 

Con riferimento al lavoro precario, alcuni economisti affermano che un lavoro a tempo determinato o part-time o saltuario è comunque meglio della disoccupazione, e che troppe tutele a favore degli occupati incentivano il lavoro nero. Lei cosa ne pensa?

Penso che tesi simili siano il frutto di una impostazione ideologica conservatrice che rifiuto categoricamente. Purtroppo certi ragionamenti a furia di essere ripetuti e propagandati sono diventati senso comune. Tra l’altro, paradossalmente, quelle affermazioni presupporrebbero l’esistenza di un mercato del lavoro rigido che è invece l’esatto contrario di quello che abbiamo oggi in Italia. 

 

Cosa distingue la situazione tedesca da quella italiana, trattandosi di Paesi dai livelli di sviluppo simili ma con tassi di disoccupazione così diversi? La grande maggioranza dei giovani tedeschi, a differenza dei coetanei italiani, trovano lavoro subito dopo essersi diplomati.

La Germania ha risolto in maniera efficace i problemi posti dalla riunificazione realizzando grandi investimenti tecnologici e supportando il settore automotive e l’industria manifatturiera. C’è stato un grande trasferimento di risorse dall’Ovest all’Est. Noi invece di fronte all’enorme dislivello Nord-Sud abbiamo eliminato la Cassa del Mezzogiorno e le sue storture senza sostituirla con meccanismi alternativi funzionanti, tanto per fare un esempio macroscopico. Quanto al sistema scolastico i tagli alle spese per l’istruzione in particolare negli anni della crisi (2008-2011) - quando avremmo dovuto fare l’opposto che tagliare - hanno falcidiato i laboratori delle scuole tecniche, mentre la formazione professionale regionalizzata dal 2001 è stata letteralmente messa in ginocchio. Si è poi pensato di utilizzare l’ alternanza scuola-lavoro, nata come esperienza didattica, in un percorso di inserimento al lavoro, con tutte le conseguenze a cui abbiamo assistito dai percorsi improbabili pensati solo per saturare l’obbligo sino ad incidenti anche mortali. Questo non significa che non ci siano esperienze di formazione professionale o formazione sul lavoro di grande qualità spesso collegate ad accordi sindacali di grande valore, ma indubbiamente le caratteristiche del sistema produttivo sulla possibilità di realizzare percorsi simili contano eccome. Dove hai un tessuto produttivo caratterizzato da una specializzazione su beni ad alto valore aggiunto, ciò è chiaramente più facile, e le dimensioni delle aziende contano eccome. Tornando alla Germania, essa adesso ha grandi difficoltà  innescate dal conflitto ucraino e dalla crisi nei rapporti commerciali con Russia e Cina con conseguenze che si riverberano inevitabilmente sulla nostra manifattura che al sistema produttivo tedesco è profondamente connessa. A maggior ragione abbiamo bisogno di una politica dello sviluppo.   

 

Quali politiche per il lavoro sarebbero utili al nostro Paese?

Bisogna fare scelte coraggiose che pongano il vincolo ambientale come criterio discriminante. Serve fissare delle priorità, la formazione in primo luogo. Occorre investire sulle persone e rinunciare ad usare la flessibilità per compensare la mancanza di iniziative sul terreno dell’innovazione. Certo non è lo Stato che può aumentare gli stipendi. Lo Stato però può ricostruire le condizioni in cui organizzare il sistema del lavoro. La strada per convincere i privati ad investire non può essere sempre quella dei bonus e degli sgravi fiscali. 



LinkedIn
Whatsapp
LASCIA UN COMMENTO
Acconsento al trattamento dei miei dati personali in conformità alle vigenti norme sulla privacy. Dichiaro di aver letto e accettato l'informativa sulla privacy
INVIA COMMENTO