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Verso 8 milioni di “smart workers” in Italia. Prof. Corso: ok il tipo di lavoro agile previsto nel settore privato, non quello per le P.A.

MARTEDÌ 01 MARZO 2022 | Lascia un commento
Foto Verso 8 milioni di “smart workers” in Italia.  Prof. Corso: ok il tipo di lavoro agile previsto nel settore privato, non quello per le P.A.
Scritto da Gabriel Bertinetto

Lo “Smart Working” sta diffondendosi sempre di più anche in contesti che sino a poco tempo fa erano considerati impermeabili a quel tipo di organizzazione del lavoro. Secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano il numero degli “smart workers” ha toccato un picco di 6,5 milioni durante la pandemia, ma il trend è in crescita e si potrà arrivare a 8 milioni. Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio e docente di “Leadership and Innovation” all’Università di Milano, mette in guardia dall’identificare lo Smart Working con una delle sue possibili modalità applicative e cioè il lavoro da remoto. Positivo secondo il prof. Corso l’accordo fra imprenditori e sindacati per il “lavoro agile” nel settore privato, mentre quello siglato per la Pubblica Amministrazione ha molti difetti.

 

Lo Smart Working è stato in parte una risposta emergenziale per consentire la continuazione delle attività lavorative nonostante il lock-down e le restrizioni imposte dalla pandemia. Come responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, Lei prof. Corso ritiene stia crescendo la consapevolezza che il cosiddetto lavoro agile abbia una sua utilità intrinseca e non sia solo un espediente imposto da circostanze straordinarie?

In realtà lo Smart Working precede nel tempo la pandemia. Fummo proprio noi dell’Osservatorio a introdurre il concetto di “Smart Working” nel 2012, avendo rilevato un trend diffuso ormai in gran parte dell’Europa. Con quel termine intendevamo riferirci a una serie di modalità lavorative, dal tele-lavoro al lavoro flessibile, che altrove erano già oggetto di elaborazione teorica, e a volte, come in Inghilterra o Olanda, inserite in un preciso quadro giuridico. Questi ed altri fenomeni portavano nel loro insieme a immaginare un modello organizzativo del lavoro che noi definimmo appunto con quel nome. Esso veniva applicato inizialmente in aziende multinazionali altamente tecnologizzate, ma si propagò rapidamente a macchia d’olio in altri settori, tanto da rendere necessaria anche in Italia una sua codificazione normativa con la legge n. 81 del 2017. Tutto ciò per chiarire che lo Smart Working era già presente prima che arrivasse il Covid. Ed è proprio la pre-esistenza di quel modello organizzativo, che già era adottato da molte imprese sulla base di un preciso quadro giuridico, ad averne favorito un’ulteriore diffusione nel momento in cui ci è piombato addosso il virus. Consideri che già prima del 2020 lo Smart Working era abitualmente praticato da ben 600mila persone.

 

Dunque il Covid ha dato semplicemente una spinta a un processo in atto?

Sì, anche se bisogna precisare che durante la pandemia si è affermata una modalità particolare dello Smart Working, cioè il lavoro da remoto. Ma lo Smart Working è un fenomeno più complesso, che può includere anche il fatto di operare da casa o da altri luoghi diversi dalla sede aziendale, ma è essenzialmente un modello organizzativo imperniato sull’autonomia e sulla responsabilizzazione del lavoratore, nel quale il raggiungimento degli obiettivi prevale sul rispetto degli orari. Certamente si è potuto affrontare la crisi economica provocata dal virus giovandosi del pre-esistente radicamento socio-economico di forme di Smart Working regolamentate per legge. In una situazione di eccezionale gravità il “lavoro agile” ha subito un’accelerazione prepotente: il nostro Osservatorio ha registrato una decuplicazione del numero di persone in Smart Working durante il lock-down, sino a toccare il numero di 6 milioni e mezzo. Si è andati così ben oltre la cifra di 5 milioni che noi stessi ipotizzavamo come possibile obiettivo.

 

Recentemente sul ricorso al “lavoro agile” il governo ha promosso due accordi fra datori di lavoro e sindacati, sia nel settore pubblico che in quello privato. Che valutazione ne dà?

Ho già avuto modo di esprimermi pubblicamente su entrambe le intese, su una delle quali, quella riguardante il settore privato, dò un giudizio assai positivo, mentre sull’altra ho forti riserve. Il protocollo che riguarda le aziende private, in realtà, non è particolarmente in sé innovativo, nel senso che non fa altro che confermare l’impostazione della legge n. 81 del 2017 di cui dicevo in precedenza. Ma proprio per questo è un protocollo importante e positivo perché scongiura il rischio che di quelle norme siano date interpretazioni limitative o fuorvianti. In sostanza quindi si conferma l’impianto della legge, aggiungendo elementi chiarificatori riguardo a certe tutele su cui la legge 81 rimaneva nel vago. In particolare oltre a ribadire il diritto alla disconnessione, se ne suggeriscono le modalità concrete di esercizio. La flessibilità di orario insomma non può essere un trucco per tenere il lavoratore in servizio effettivo permanente. Il protocollo fornisce a imprenditori e sindacati le linee guida per accordi contrattuali aziendali ed individuali, riconoscendo in maniera non rigida il ruolo della contrattazione collettiva. La legge n. 81 già prescrive che il “lavoro agile” non possa essere imposto e debba essere invece oggetto di intese con il singolo dipendente. Il protocollo firmato nei mesi scorsi ribadisce questo punto ma lo inserisce nel contesto più generale di un dialogo fra le parti sociali. L’accordo è il frutto e lo specchio di una maturazione dei sindacati e del ruolo positivo che questi stanno giocando sul terreno dello Smart Working nel settore privato, recependo la spinta che proviene dai loro stessi iscritti.

 

Cosa c’è che invece non va secondo lei nell’altro protocollo, che riguarda la P. A. (Pubblica Amministrazione)?

Ha il limite di essere frutto di un compromesso fra la rigidità preconcetta ideologica della posizione ministeriale e l’esigenza di tutelare aspettative e interessi dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali. Ne è uscito un accordo che, sebbene anche qui contenga contributi apprezzabili come il riconoscimento del diritto alla disconnessione, introduce in modo fuorviante delle pesanti condizionalità per l’accesso allo Smart Working, quasi che l’applicazione dello Smart Working sia un premio da dare a certe P.A. virtuose che hanno ad esempio conseguito buoni livelli di digitalizzazione ed efficienza e non abbiano da smaltire ingenti arretrati di lavoro. In questo modo si fa una tragica confusione tra fini e mezzi, alimentando l’idea che lo Smart Working sia una sorta di contentino da elargire ai lavoratori delle amministrazioni più performanti e non un valido modello organizzativo teso a migliorare i servizi resi al cittadino. A ciò si aggiunge il danno arrecato dal DPCM 24 settembre 2021 (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri), che affermando in modo indiscriminato il principio della prevalenza del lavoro in presenza nella P. A., stabilisce nei fatti una quota massima di ricorso al lavoro da remoto per tutti i lavoratori della P.A., senza tenere conto delle enormi differenze tra varie Amministrazioni e mansioni all’interno del pubblico impiego. Significa porre sullo stesso piano l’addetto agli sportelli di un minuscolo sperduto comune montano e il “data scientist” (analista informatico) di Istat. Questo non ha alcun senso, come non avrebbe alcun senso, ed infatti non viene attuato, nel settore privato. Mettere il limite del 49% al lavoro da remoto nella P. A. è come stabilire una misura unica di scarpe per i tutti i bambini. Ad alcuni andranno strette, ad altri saranno larghe. L’unica ragione alla base di questa scelta è un preconcetto secondo cui il vero lavoro è quello che si svolge in presenza, mentre quello fatto in remoto è finto o comunque inefficiente, preconcetto che non solo non è confermato in generale, ma anzi è oggi nettamente smentito dai dati disponibili.

 

C’è dunque il rischio di uno snaturamento dello Smart Working?

Direi che il rischio di snaturamento c’è, come prova anche il fatto che nelle linee guida per la P. A. il lavoro agile, così come è come definito nella legge n. 81, non potendo ovviamente essere negato viene soltanto reso più difficile da attuare, affiancandogli una modalità di lavoro a distanza “con vincoli di orario”. Essa viene nei fatti incentivata con la possibilità di riconoscere buoni pasto e straordinari, ma a ben vedere altro non è che una brutta copia del vecchio tele-lavoro che consiste nel lavorare da remoto ma con gli stessi vincoli d’orario dell’attività in sede. Ciò cozza contro il principio cardine dello Smart Working che implica la possibilità di lavorare per obiettivi prescindendo da vincoli temporali e spaziali. Nello scrivere la legge del 2017 si era fatto attenzione a chiarire che, per puntare al benessere, all’autonomia e alla responsabilizzazione del lavoratore, occorre allentare i vincoli riguardanti l’orario e il luogo in cui opera. Nel protocollo per la Pubblica Amministrazione ciò rischia di venire meno. Al lavoratore attratto dai potenziali benefici di conciliazione, viene riconosciuta solo la flessibilità rispetto alla scelta di lavorare da remoto. Ma in se stessa l’attività svolta in casa propria non garantisce un maggiore equilibrio vita/lavoro se manca discrezionalità nel disporre del proprio tempo secondo ritmi che non ricalcano necessariamente quelli dell’orario d’ufficio. Anzi c’è il rischio di incrementare lo stress. Proporre questa versione svilente di tele-lavoro e incentivarla attraverso la possibilità di accedere a buoni pasto e straordinari, vuol dire depotenziare il vero Smart Working. Ma è ovvio che questo modello spurio non produrrà i benefici in termini di autonomia, responsabilizzazione, professionalità ed anche benessere e conciliazione lavoro-vita privata, che deriverebbero dal vero Smart Working, né tantomeno garantirà vantaggi di produttività e qualità del servizio ai cittadini. Ne risulteranno rafforzate le convinzioni dei detrattori dei nuovi modi di lavorare, nella più tragica e prevedibile dinamica di una profezia che si auto-avvera.

 

Diversi studi, compresi quelli svolti dall’Osservatorio del Politecnico di Milano di cui lei è Responsabile Scientifico, dimostrerebbero che c’è un alto livello di gradimento verso lo smart working fra coloro che lo hanno sperimentato per la prima volta a causa del virus. Cos’è che viene apprezzato di più? La possibilità di evitare i trasferimenti casa-ufficio, la maggiore autonomia, la flessibilità degli orari, la possibilità di conciliare il lavoro con le cure domestiche, etc.?

E’ vero, nonostante le condizioni estreme ed emergenziali in cui i nuovi modi di lavorare sono stati sperimentati, il livello di apprezzamento da parte dei lavoratori è impressionante: l’86% di chi ha praticato durante la pandemia il lavoro da remoto, vorrebbe in condizioni di normalità accedere allo Smart Working. I vantaggi percepiti sono in primo luogo la possibilità di conciliare vita privata e lavoro. Subito dopo viene l’apprezzamento per la maggiore autonomia, la responsabilizzazione, la fiducia da parte dei propri dirigenti. Interessante anche il dato su coloro che non hanno mai potuto sperimentare il lavoro da remoto durante la pandemia: quattro quinti delle persone censite ne sono attirate e sarebbero quindi propense a sperimentare almeno in parte lo Smart Working. Questi e altri dati ci inducono a stimare che si possa superare il picco dei 6,5 milioni di “smart workers” toccato durante la pandemia ed arrivare a coinvolgere almeno 8 milioni di lavoratori. A mano a mano che la tecnologia evolve, l’asticella si sposta più in alto.

 

Secondo alcuni però lo Smart Working comporta anche svantaggi. Ad esempio c’è il rischio che sfumi il confine fra tempo di lavoro e tempo extra. Oppure possono venire a mancare il contatto umano, l’appartenenza ad una comunità di lavoro, un più facile e diretto scambio delle idee e delle informazioni. Come evitare questi difetti?

Attenzione. Questo non è lo Smart Working, è il lavoro da remoto, che è solo una componente dello Smart Working. Non dimentichiamoci inoltre che, in condizioni normali, il “lavoro agile” richiede un esplicito accordo con il lavoratore. Questo è un principio fondamentale riconosciuto nella legge n. 81 e anche nei più recenti protocolli applicativi. In sostanza lo Smart Working può essere proposto, mai imposto. Dunque se l’accetto, è perché trovo che mi vada bene. E ciò allora significa che non ci vedo tutti quelli svantaggi di cui Lei parlava, e che effettivamente per alcuni possono essere motivo di rigetto. Se accetti lo Smart Working accetti di misurarti sui risultati che produci con il tuo lavoro e non sulle ore che ci dedichi. Nel quadro di un’attività indirizzata verso certi obiettivi, hai l’autonomia di scegliere orari e luoghi in cui esercitarla. Quegli aspetti negativi ai quali lei accennava, sono in realtà legati specificamente al lavoro da remoto, così come è stato svolto nelle particolari condizioni imposte dall’emergenza sanitaria. E sono emersi proprio perché non si trattava di una scelta, ma di uno stato di costrizione. Prendiamo il caso di tante lavoratrici che si sono trovate loro malgrado a lavorare da casa, magari con vincoli di orari rimasti rigidi, dovendo al contempo svolgere le faccende domestiche, e assistere i figli impegnati nella didattica a distanza. E’ evidente che per molte di loro l’esperienza del cosiddetto Smart Working durante il lock-down possa essere stata traumatica. Aggiungo che fra coloro che più hanno sofferto lo Smart Working e in particolare il lavoro da remoto non ci sono solo i lavoratori comuni, ma anche i capi, molti dei quali non amano interpretare il loro ruolo quando i collaboratori non sono presenti in ufficio. Vuoi perché percepiscono la situazione come una menomazione del proprio ego, vuoi perché non sono capaci a programmare il lavoro di persone che non siano sul posto, vuoi perché vedono nell’autonomia e nella maggiore responsabilizzazione dei dipendenti un limite che mette in evidenza la loro incapacità di programmare.

 

L’Osservatorio del Politecnico di Milano premia ogni anno le migliori esperienze di Smart Working in Italia. Può dirci come avviene la selezione e parlarci dei vincitori?

Esaminiamo ogni anno un gran numero di aziende e istituzioni e compiliamo un elenco dei migliori che sottoponiamo al vaglio di esperti, che a loro volta scelgono i vincitori in ciascuna categoria. Questi poi vengono anche sottoposti al giudizio di una giuria allargata. Quest’anno la vittoria è andata a Banca d’Italia, e devo dire che non è l’unica realtà della P.A. in cui lo smart Working è applicato in maniera efficace. Potrei citare Istat, Inps, Inail. Banca d’Italia è un caso d’eccellenza, un modello dinamico di adattamento ai cambiamenti imposti dalla pandemia.

 

Altri rami della P.A. vengono spesso additati invece come esempi di mal funzionamento nei mesi dell’emergenza sanitaria.

Vero, ma bisogna stare attentissimi a non generalizzare. Nella P.A. c’è di tutto: enti locali, scuole, università, giustizia. Quest’ultima, ad esempio, non ha certo dato buona prova di sé in quel periodo con il blocco dei processi e il rallentamento delle attività. E il problema non è stato certo lo Smart Working, ma al contrario la difficoltà di praticarlo. Le attività in sé si sarebbero prestate ad applicare forme spinte di Smart Working, ma per fare questo occorrevano più alti livelli di digitalizzazione rispetto a quelli esistenti in Tribunali e Procure. La scuola è un altro settore in cui si poteva avere una risposta migliore, ma non archivierei frettolosamente l’esperienza della DAD (didattica a distanza) come un fallimento. Al contrario, date le condizioni di partenza, ci si è mossi su livelli encomiabili di resilienza. Passando alle P.A. centrali non si può non sottolineare l’ottimo lavoro svolto dall’Inps che in condizioni di Smart Working ha smaltito una mole di lavoro che durante la pandemia si era quadruplicata. Molte Amministrazioni locali, invece, hanno funzionato male durante l’emergenza, ma ciò non va imputato affatto allo Smart Working, bensì al contrario alla sua assenza o errata applicazione, causata spesso dal basso grado di digitalizzazione e di managerialità.

 

Che rapporto c’è fra Smart Working e digitalizzazione?

Lo sviluppo digitale è componente essenziale dello Smart Working. Ma non usiamo il basso livello tecnologico di questo o quel settore operativo come scusa per rinviarne l’applicazione. E’ sbagliato dire che la modernizzazione digitale deve precedere l’applicazione del “lavoro agile”. In realtà è stato proprio il ricorso allo Smart Working a consentire progressi veloci in materia di competenze digitali. Grazie allo Smart Working sono stati fatti balzi avanti enormi nel campo delle attività di consulenza e di formazione altamente digitalizzate.

 

Ci sono attività produttive che per le loro caratteristiche non si prestano allo smart working?

Chiaramente è più faticoso attivare lo scambio fra autonomia operativa e responsabilizzazione, intrinseco nello Smart Working, laddove esistono vincoli tecnici che richiedono la presenza in un certo luogo ed orario. L’esempio classico è l’impiegato che lavora allo sportello per il servizio alla clientela, oppure il commesso del negozio al dettaglio. Si potrebbero fare però anche esempi di attività che sembravano impermeabili al “lavoro agile”, e proprio durante la crisi si sono rivelate non essere affatto tali. Prendiamo il caso dei call-center: sino a poco tempo fa gli addetti erano confinati in stanzoni dai quali rispondevano alle chiamate dei clienti. La pandemia ha costretto a cambiare organizzazione, sfruttando i sistemi “cloud” che consentono all’addetto di operare da remoto. Quei sistemi già esistevano, ma nei call-center non venivano utilizzati. Ora lo sono, e, visti gli incredibili vantaggi riscontrati, continueranno ad esserlo anche ad emergenza sanitaria tramontata.

 

Sicuramente è più difficile attuare il lavoro agile in attività di tipo meccanico?

Sì, ma anche in questo caso non bisogna generalizzare. Una parte crescente dei cosiddetti “colletti blu” può essere coinvolta nello Smart Working. Consideriamo le attività di manutenzione ad esempio. Era il tipico campo in cui il lavoro in presenza si rendeva pressoché obbligatorio. Con lo sviluppo della digitalizzazione però si sono diffusi strumenti per le diagnosi a distanza e per la manutenzione preventiva e predittiva da remoto. Così si può abbinare il ruolo dei manutentori che agiscono sul posto a quello dei manutentori che ne guidano l’intervento da lontano. Ciò produce un vantaggio notevole nei risultati per il cliente e nell’organizzazione del lavoro. Potrei fare esempi ancora più particolari e suggestivi, come quello dei minatori cinesi che non vanno più sottoterra, ma dall’esterno guidano i droni robot adibiti agli scavi nelle zone più soggette a rischio frana. Oppure pensiamo alla stampa 3D: un tecnico sviluppa un modello di prodotto che viene poi mandato in stampa quando e dove serve. Diciamo che a mano a mano che avanza l’automazione, lo Smart Working penetrerà sempre di più nel mondo dei “colletti blu”, che attualmente in Italia sono grosso modo metà dei circa 18 milioni di lavoratori dipendenti.



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