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Stress e “burnout” moderne malattie professionali. Studiosi concordi: un buon clima aziendale conviene all’imprenditore e non solo al lavoratore

VENERDÌ 01 MARZO 2024 | Lascia un commento
Foto Stress e “burnout” moderne malattie professionali. Studiosi concordi: un buon clima aziendale conviene all’imprenditore e non solo al lavoratore
Scritto da Gabriel Bertinetto

Sindrome da esaurimento emotivo e fisico collegata a diminuito impegno lavorativo. Ci vogliono una dozzina di parole per descrivere quello che la lingua inglese riassume in un solo vocabolo, “burnout”, una condizione psico-fisica che assomiglia moltissimo allo “stress cronico da lavoro non adeguatamente gestito”, ormai ufficialmente considerato una malattia professionale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Stando ad alcune ricerche il morbo si starebbe estendendo a macchia d’olio, anche se i risultati degli studi forniscono scenari abbastanza divergenti l’uno dall’altro quanto a livelli di diffusione e di intensità. Particolarmente drammatici i dati divulgati da “GoodHabitz”, società di consulenza per la promozione delle risorse umane, secondo la quale ne sarebbe affetto nel nostro Paese addirittura il 70% dei lavoratori, ed il 13% in forma grave. Non è un problema unicamente nazionale. Anzi i nostri valori sono lievemente inferiori alle medie internazionali, rispettivamente 73% e 18%.

Sono queste le cifre emergenti da un’indagine che “Goodhabitz” ha svolto in collaborazione con l’istituto olandese “Markeffect” su un campione complessivo di 24mila individui in ben sedici diversi Paesi (12 europei, 3 sudamericani e Australia), avente per oggetto il tema della salute mentale nel mondo del lavoro. In Italia sono stati interpellati 1277 individui di età compresa fra 25 e 65 anni, tutti occupati. I risultati variano da un angolo all’altro del globo, ma l’impatto del burnout sembra essere significativo ovunque. Basti pensare che su scala mondiale l’84% degli intervistati affermano di essere pronti a lasciare il lavoro entro un anno per la carenza di opportunità di crescita personale, un atteggiamento strettamente connesso al “burnout”. In alcuni Paesi (Polonia, Svizzera, Gran Bretagna) la percentuale di coloro che sono così scontenti e insoddisfatti della loro vita lavorativa da meditare le dimissioni salirebbe addirittura oltre il 90%.

Un quadro sicuramente preoccupante, ma meno catastrofico, emerge da un’altra inchiesta effettuata dal McKinsey Health Institute su 30mila lavoratori dipendenti in trenta Stati. Il cosiddetto burnout colpisce il 22% degli occupati anche se l’Italia sta meglio rispetto ad altri, con una percentuale di “malati” pari al 16%. La differenza notevole rispetto agli esiti dell’inchiesta “Goodhabitz” dipende forse dall’uso di parametri non omogenei da parte dei due gruppi di ricercatori. Del resto anche “McKinsey” rispetto ad alcuni aspetti specifici del “burnout”, come l’esaurimento fisico e mentale, rileva in Italia una percentuale di “pazienti” molto alta: 43%.

Senza addentrarsi in una disamina dettagliata e in un difficile confronto fra diversi schemi concettuali di approccio al problema, resta la realtà della larga diffusione di questa forma di patologia. Colpisce notare come il Paese messo meglio da questo punto di vista, secondo “McKinsey”, sia il Camerun con un misero 9% di lavoratori vittime del burnout. Verrebbe naturale etichettare allora il burnout come un’appendice tossica del benessere materiale, se non fosse che all’opposta estremità della scala non troviamo, come potremmo aspettarci, qualche Stato del mondo occidentale bensì l’India con il 59%. E allora almeno in questo caso si è tentati di immaginare il burnout come trauma collaterale di uno sviluppo particolarmente impetuoso, quale è quello che sta caratterizzando attualmente il grande Paese asiatico.

 

Una terza indagine, frutto di un sondaggio divulgato da “People Management” si concentra sul peso dello stress cronico da lavoro nel mondo giovanile. L’immagine che ne scaturisce è quella di una generazione divisa fra il bisogno di realizzare se stessa nell’attività lavorativa e la difficoltà di trovare formule gratificanti. Il problema riguarda la metà degli occupati delle fasce d’età comunemente chiamate “Gen Z”, cioè i nati fra il 1995 e il 2010, e “Millennials” nati tra 1980 e 1994. Quattro quinti di loro si dicono pronti a lasciare il lavoro a causa di un clima aziendale non gradito.

Può sembrare sorprendente tanta propensione a rinunciare a una fonte di guadagno solo per ragioni legate a un disadattamento di tipo psicologico, ma è un fatto che la questione viene presa molto sul serio nel mondo del business e soprattutto da coloro che operano nella gestione delle risorse umane. Per Francesca Verderio, di Zeta Service, una società che procura servizi HR, troppo spesso si ritiene “che l’intenzione di abbandonare il posto di lavoro sia legata a tematiche retributive o di carriera”. Spesso invece al centro del problema è l’atmosfera che si respira in azienda. Nell’atteggiamento dell’individuo verso la propria attività, e quindi nell’eventuale scelta di cessarla, secondo Verderio contano sempre di più “il senso di appartenenza, il supporto offerto dal proprio team, l’equità o l’eticità dei comportamenti manageriali”, e l’attenzione che i dirigenti prestano alle esigenze di benessere psicologico dei dipendenti. 

“Perlab” (Laboratorio di Psicologia, Emozioni, Ricerca) ha studato il clima emotivo di 40 aziende italiane operanti nei settori più disparati: dalle ferrovie alla farmaceutica alla moda. L’indagine ha interessato oltre 11mila individui. Ne è emerso che le emozioni negative percepite dai lavoratori prevalgono nettamente su quelle positive. Al primo posto stanno la stanchezza e lo stress, denunciate come principale condizione nervosa rispettivamente dal 36% e dal 29% degli intervistati. Frustrazione e scoraggiamento appartengono al 18% e al 17%. Per trovare un’emozione piacevole bisogna scendere al 16% (sicurezza di sé), seguita da rispetto (13%), serenità ed entusiasmo (entrambe al 12%). Fortunatamente le condizioni mentali decisamente negative (rabbia, noia, emarginazione) sono in fondo alla classifica, fra il 6 e il 7%.

Per Laura Artusio, fondatrice di Perlab, alcuni imprenditori “non comprendono l’importanza del clima emotivo” in azienda. Manca la consapevolezza che “l’intelligenza emotiva e la creatività sono i due elementi principali che permettono all’essere umano di non essere sostituito dalle macchine”. Vivere in un ambiente umanamente accogliente e stimolante consentirebbe insomma di affrontare più efficacemente le sfide poste dalla crescente digitalizzazione delle attività economiche.

Fortunatamente altri imprenditori capiscono invece il nesso fra salute mentale e produttività, e si affidano sempre di più al sostegno degli psicologi. Il supporto può anche essere offerto online, come fa “Unobravo”, una start-up fondata cinque anni fa, che punta di passare entro il 2024 dagli attuali 120mila fruitori individuali sino a 300mila. Quanto alle aziende, Unobravo ha già un centinaio di clienti in Italia, fra cui Italgas, GE Healthcare, Facile.it, DHL. L’assistenza in rete viene fornita attraverso contatti personali e seminari di gruppo. Da qualche anno lo Stato finanzia il cosiddetto bonus psicologo, recentemente rinnovato dal governo nel Decreto Milleproroghe, ma secondo Danila De Stefano, fondatrice di Unobravo, “non in misura sufficiente per la popolazione italiana”.

Ma quali possono essere concretamente le iniziative atte a facilitare lo sviluppo di un migliore contesto umano nei luoghi di lavoro? Importanti sono gli ambienti fisici, e quindi uffici allestiti con spazi dinamici e flessibili in locali puliti e luminosi. Ma questo non basta, a giudizio di Alisa Galli, psicologa di “Fitprime”, una società che fornisce servizi di welfare finalizzati al benessere personale. Servono soprattutto tre elementi che la dottoressa Galli definisce “single tasking, mindfulness, ascolto delle emozioni”. Single-tasking significa focalizzare il proprio impegno su un obiettivo evitando di disperdere le proprie energie nell’inseguire troppi traguardi nello stesso momento. “Passare da un compito all’altro -afferma Galli- ci fa ingannevolmente pensare di poterne portare avanti tanti” ed invece “facendo una cosa alla volta si raggiungono risultati migliori e in meno tempo”. “Mindfulness” significa concentrare la propria attenzione su quello che si sta facendo, abituandosi a riconoscere il nesso fra uno stimolo esterno (l’obbligo di completare un’operazione, la critica di un capo, etc.) e le nostre risposte, allo scopo di “essere più pronti la volta successiva” nel controllare il nostro modo di agire e reagire. L’ultimo importante fattore che contribuisce a migliorare il proprio rapporto con l’habitat lavorativo è l’ascolto delle proprie emozioni. “Ci hanno sempre detto di lasciarle fuori dall’ufficio - dice Galli- ma non è possibile. Cercare di sopprimerle può solo creare problemi. Le emozioni sono bussole che ci indicano la strada da seguire e le decisioni da prendere. Lo stress non va ignorato, ma piuttosto ascoltato per rimuoverne le cause”.

Paradossalmente può anche accadere che le azioni a tutela della salute mentale trovino avversari, o per lo meno dei sostenitori alquanto tiepidi, negli stessi potenziali beneficiari. L’azienda inglese di consulenze finanziarie MHR ha scoperto che su mille persone intervistate, quasi l’80% era scettica sulle iniziative promosse a quel fine dai propri datori di lavoro, ritenendole episodiche e poco incisive. Quasi fossero la concessione rituale ad una moda piuttosto che non la convinta adesione a scelte operative utili sia al lavoratore che all’imprenditore. E invece sembra ormai assodato che produttività e salute mentale siano strettamente correlate. Nel calcolare che il 15% dei lavoratori nel mondo soffra di disturbi psichici, l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che depressione e ansia comporteranno la perdita di 12 miliardi di giornate lavorative e un trilione di dollari ogni anno da qui sino al 2030.



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