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Un terzo degli italiani è tentato dalle dimissioni, ma il 41% di chi davvero lo fa poi si pente

LUNEDÌ 07 AGOSTO 2023 | Lascia un commento
Foto Un terzo degli italiani è tentato dalle dimissioni, ma il 41% di chi davvero lo fa poi si pente
Scritto da Gabriel Bertinetto

Il primo ad usare il termine di “Great Resignation” (Grandi Dimissioni) fu Anthony Klotz, docente alla “London’s School of Management”, nel maggio del 2021. Si era in piena pandemia. Negli Stati Uniti prima, poi in Europa e altrove, cominciava a prendere corpo quella che apparve agli osservatori come una sorta di fuga in massa dal lavoro, cioè una quantità di rinunce al proprio impiego molto più consistente rispetto alla norma. Klotz ed altri studiosi collegarono il fenomeno all’emergenza sanitaria e previdero che sarebbe continuato a lungo. Fu buon profeta. Le statistiche dimostrano che la tendenza permane e non ci sono segnali di un rallentamento.

In realtà l’enorme impatto che le restrizioni imposte dal Covid ebbero sulla vita sociale e sul modo di lavorare furono soltanto, come si legge in un’analisi dello studio commerciale londinese “Lewis Silkin LLP”, un “elemento acceleratore di cambiamenti” che stavano maturando comunque. Il rallentamento dell’attività produttiva e il confinamento domestico forzato crearono le condizioni in cui molti individui iniziarono a interrogarsi sul proprio rapporto con il lavoro. Per un buon numero di loro questo sfociò nel desiderio di cercare nuove soluzioni. Ma la tendenza era già in atto, per così dire sotto traccia, e il virus ha solo contribuito a farla emergere.

Di che si tratta? In sostanza le persone prendono sempre più coscienza dell’importanza di trovare nel lavoro non soltanto una fonte di guadagno ma anche di soddisfazione personale, e questo a mano a mano che viene meno il mito del posto fisso o della sicurezza economica a tutti i costi. Perché restare abbarbicati a un impiego sgradito se non hai nemmeno la certezza che il sacrificio paghi in termini di tranquillità finanziaria e stabilità occupazionale? Un sintomo di questo atteggiamento, tanto per fare un esempio, è la frequenza con cui da qualche tempo vanno deserti tanti concorsi per l’assunzione di personale nell’amministrazione statale. Alberto Bonisoli, presidente del Formez (Centro Servizi delle P.A.) fa anche notare come ci siano “diversi candidati che vincono il concorsi e rinunciano, per scegliere un altro impiego pubblico”.

Una ricerca sul fenomeno delle “Grandi Dimissioni” è stata effettuata recentemente da “Kelly”, una società internazionale di “head hunting”. L’indagine ha riguardato un campione di 4200 lavoratori dipendenti e 1500 dirigenti, I risultati sono impressionanti. Un terzo esatto degli italiani non esclude di lasciare la propria azienda nell’arco dei prossimi dodici mesi. La quota è perfettamente in linea con la media europea, anche se al di sotto delle percentuali che si registrano in Paesi come la Germania (44%) o Francia (36%). 

Le ragioni che sottostanno all’intenzione di mollare sono varie, senza che una prevalga di molto sull’altra. Spiccano comunque il desiderio di sviluppare un rapporto più soddisfacente fra attività professionale e interessi privati, e la sfiducia nella possibilità di progressi nella carriera e nell’affinamento delle competenze. Questi due fattori contano per circa il 25% dei lavoratori europei. Un’analoga percentuale di italiani indicano anche gli eccessivi carichi di lavoro e la pressione psicologica dovuta alla sensazione di vivere in uno stato di costante emergenza. 

Dai potenziali dimissionari individuati da “Kelly” agli effettivi auto-licenziamenti rilevati dal Ministero del Lavoro. Risulta che a fine 2022 se ne era andato l’8% in più rispetto al 2021, anno in cui già si era registrato un incremento rispetto all’anno precedente. In valori assoluti 2.198.000 nel 2022 rispetto ai 2.049.000 nel 2021. Disaggregando i dati per fasce d’età prevalgono i più giovani, ma è consistente anche la fetta di persone che scelgono di anticipare il pensionamento anziché attendere l’età che consentirebbe di ritirarsi con il massimo del trattamento. Secondo l’INPS le pensioni di anzianità nel 2021 hanno superato del 40% quelle di vecchiaia, e la tendenza si è fortemente accentuata l’anno successivo. Ma nel caso dei pensionamenti prematuri entra in gioco una motivazione particolare e assai diversa rispetto alle dimissioni di coloro che punterebbero comunque a rientrare in seguito nel mondo del lavoro. Pesa infatti  il timore generato dalle frequenti modifiche normative, che spinge ad approfittare di un’occasione che potrebbe non ripresentarsi più a distanza di un anno o due.

Tornando ai dimissionari che lasciano il lavoro con il programma di procurarsene un altro, le statistiche confermano ciò che è abbastanza logico attendersi. Sono più numerosi coloro che hanno qualifiche superiori, dai medici agli ingegneri agli operai specializzati. Del resto il possesso di titoli di studio più o meno elevati è direttamente proporzionale alle chances di rientro nel mondo del lavoro. La Fondazione Studi Consulenti del Lavoro calcola che il 69% circa dei laureati riesca a trovare abbastanza rapidamente una nuova occupazione, mentre per i diplomati la percentuale scende sotto il 56% e per gli altri sta poco sopra il 50%.

Gli esperti considerano che le “Grandi Dimissioni”, almeno a livello psicologico, siano un evento comportamentale contiguo o speculare rispetto al “Quiet Quitting” (“Abbandono Silenzioso”). Il dipendente non si licenzia, resta in azienda ma tende a fare il minimo indispensabile per guadagnarsi la paga senza rischiare di perdere il posto. Di comune ai due atteggiamenti è l’insoddisfazione per il proprio lavoro. Ma mentre il dimissionario ha ambizioni che travalicano la sua presente occupazione, e che vanno dall’esigenza di dedicare più tempo alla vita privata alla ricerca di più allettanti prospettive di carriera o di stipendio, l’orizzonte progettuale di chi sceglie di rimanere dov’è ma con l’animo di un estraneo è più limitato. Si accontenta di ciò che ha, perché gli basta il salario che riceve, ma non si sente coinvolto nella vita aziendale, non ama essere investito di responsabilità, considera il lavoro uno strumento necessario ad ottenere di che campare ma non una componente integrante della propria soggettività. Essa si realizza invece al di fuori, nella famiglia, nelle amicizie, nei divertimenti. Per la psicologa Alisia Galli sono “persone che decidono di adempiere alle loro mansioni lavorative, ma di non aderire alla cultura del lavoro”.

Non è facile calcolare la dimensione del “Quiet Quitting”. L’inchiesta di “Kelly” fornisce dati che aiutano a farsi un’idea. Solo il 35% dei lavoratori europei dichiara di apprezzare le mansioni che gli sono quotidianamente affidate. Il grado di disaffezione può essere desunto ex-contrario dalle rilevazioni sull’effettivo coinvolgimento dei lavoratori nell’attività della loro ditta, che secondo l’istituto demoscopico “Gallup” in Europa è a livelli infimi: addirittura il 14%, come si legge nel rapporto intitolato “State of the global workplace 2022”. Ciò per molti osservatori implica forti responsabilità manageriali. Il “Quiet Quitting” potrebbe essere attenuato o superato attraverso politiche aziendali volte a coinvolgere maggiormente il personale nelle scelte operative ed organizzative. 

Più esplicito nel conteggio dei soggetti protagonisti di “Quiet Quitting” è l’Osservatorio del Politecnico di Milano “HR Innovation Practice”, che contrappone questi ultimi alla figura del “job creeper”, cioè colui che non riesce a staccarsi dal lavoro. In Italia i primi sarebbero il 12% degli occupati, circa il doppio rispetto agli stakanovisti esageratamente legati al mestiere. Per concludere, come in un romanzo giallo, anche gli studi sulle difficoltà esistenti nel rapporto fra individui e lavoro, quali si manifestano nella “Great Resignation” e nel “Quiet Quitting”, ci regalano il colpo di scena finale. Se è vero che negli ultimi anni in Italia è cresciuto il numero degli auto-licenziamenti, è altrettanto vero che la mole di coloro che dopo avere cambiato lavoro si dichiarano scontenti o addirittura pentiti è sorprendentemente molto elevata. Ed è proprio l’Osservatorio del Politecnico milanese a quantificarla in un corposo 41%. Molti se ne erano andati senza la certezza di un’offerta alternativa. Altri avevano semplicemente scambiato i propri desideri con la realtà e finiscono con il rivalutare a posteriori la relativa qualità dell’attività precedente nel confronto con la nuova.



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