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Guerra e caro-energia proiettano ombre sul mercato del lavoro. Il prof. Del Conte spiega come si potrà superare la crisi

VENERDÌ 14 OTTOBRE 2022 | Lascia un commento
Foto Guerra e caro-energia proiettano ombre sul mercato del lavoro. Il prof. Del Conte spiega come si potrà superare la crisi
Scritto da Gabriel Bertinetto

Proprio mentre il superamento dell’emergenza sanitaria permetteva  all’economia e all’occupazione di riprendere quota, la guerra in Ucraina innesca una nuova crisi con l’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime. Secondo il prof, Maurizio Del Conte, docente di Diritto del Lavoro all’Università Bocconi di Milano, le conseguenze sul mercato del lavoro saranno inevitabili. “Nei prossimi mesi è lecito aspettarsi nuovi licenziamenti, un più ampio ricorso alla Cassa Integrazione, un forte ridimensionamento dei livelli occupazionali”. Ma gli investimenti previsti dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) potranno aiutarci a ripartire. A differenza del passato, dice Del Conte, ora le risorse ci sono. Si tratta di usarle bene.

 

Stavamo uscendo calla crisi pandemica e ci è piombata addosso un’altra crisi, quella del caro-energia, innescata dalla guerra in Ucraina. Quali scenari potrebbero delinearsi, professor Del Conte, per l’economia italiana ed in particolare per l’occupazione ed il mercato del lavoro?

Certamente sul mercato del lavoro si proiettano ombre di preoccupazione. Sappiamo che c’è una correlazione stretta e diretta fra la crescita o la contrazione dell’economia e l’occupazione, anche se noi in Italia abbiamo un mercato del lavoro che risponde con una certa lentezza agli impulsi positivi o negativi della produzione. In particolare gli effetti di una crisi congiunturale sull’occupazione si sentono in relativo ritardo grazie a certi ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione (CIG). Poi però facciamo molta più fatica a risalire nei livelli occupazionali quando inizia la ripresa economica. Insomma siamo caratterizzati da un doppio ritardo, sia in entrata sia, e più a lungo, durante l’uscita dalle crisi, Nelle prime fasi di ripartenza del ciclo, le aziende si muovono con cautela, non si fidano ed hanno paura ad assumere soprattutto se si tratta di firmare contratti a tempo indeterminato. Ma per tornare alla situazione specifica attuale, pur non volendo fare il profeta di sventure, è lecito aspettarsi per i prossimi mesi nuovi licenziamenti, un più ampio ricorso alla CIG, un forte ridimensionamento dei livelli occupazionali. E questo avviene proprio quando ci stavamo riprendendo molto bene dopo l’emergenza sanitaria e sociale provocata dal virus. Il Prodotto Interno Lordo (PIL) era tornato a crescere e così pure l’occupazione, sebbene con caratteristiche qualitativamente diverse rispetto al periodo pre-Covid, con meno assunzioni a tempo indeterminato e più contratti a termine. Comunque ci stavamo risollevando. Ora invece ci sono motivi di seria preoccupazione.

 

Ci ha descritto le ombre che si proiettano sul nostro mercato del lavoro. Come si può tentare di dissiparle? Con quali interventi?

Siamo un Paese tradizionalmente fragile per quanto riguarda le politiche attive per il lavoro. Fragile perché non è abbastanza efficiente la rete territoriale dei servizi per il lavoro, e mi riferisco in particolare ai Centri per l’Impiego. Fragile anche per la debolezza di un altro strumento indispensabile ad assistere chi voglia entrare o rientrare nel mercato del lavoro, e cioè la formazione professionale. E allora il momento che stiamo vivendo è proprio quello in cui bisogna assolutamente investire in questi due campi. Ma è anche il momento in cui le persone che vedano in prospettiva una rapida obsolescenza delle proprie competenze professionali o che siano occupate in settori prossimi alla dismissione, devono intraprendere percorsi di riqualificazione, per non restare intrappolati in una disoccupazione di lungo periodo. Magari approfittando del tempo libero procurato dalla CIG è opportuno aggiornarsi e prepararsi per il passaggio a nuove mansioni. Il licenziamento può preludere a una nuova assunzione se si acquisiscono le competenze necessarie. Teniamo poi presente che stiamo attraversando una crisi di tipo congiunturale. Se non si prolungherà troppo a lungo (resta naturalmente l’incognita della durata del conflitto in Ucraina), quando si tornerà a una gestione ordinaria dei costi dell’energia e delle materie prime, gli ingredienti per una forte ripresa ci sono. Sono gli investimenti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che potranno farci recuperare terreno, così come già stava accadendo dopo la fase acuta della pandemia e prima della guerra.

 

Le speranze sono dunque legate agli ingenti fondi che l’Europa mette a disposizione del PNRR?

In buona parte sì, anche perché una larga fetta di quei 200 miliardi di euro vanno spesi per la transizione digitale e lo sviluppo dell’economia “green”. Lungo questi due assi, la filiera digitale e l’insieme delle attività connesse all’economia verde e sostenibile, è richiesto un grande aggiornamento delle competenze. Ciò è particolarmente importante per noi, che siamo indietro in quei campi. Oggi le imprese fanno una fatica enorme a trovare i profili professionali di cui abbisognano. E’ il momento di riconvertire parte della forza lavoro verso queste nuove abilità. Ciò si fa promuovendo politiche attive che predispongano percorsi formativi coerenti con il fabbisogno. Per la prima volta dal dopoguerra ad oggi non mancano le risorse necessarie. Il PNRR destina 5 miliardi alla formazione professionale. Una somma mai vista prima. Ci si lamentava sempre perché certi investimenti erano troppo costosi e i soldi non c’erano. Oggi i fondi ci sono.

 

Se ora i soldi ci sono, il problema sta nello spenderli bene?

Esattamente. Avere a disposizione le risorse è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Accanto alle risorse occorre mettere in moto una buona capacità di programmazione. Sia nel rafforzamento dei servizi per il mercato del lavoro, sia nella riorganizzazione delle attività per la formazione professionale. Oggi queste attività sono svolte da enti accreditati dalle singole Regioni, e ogni Regione ha sistemi di accreditamento diversi. Il problema è che la selezione degli enti non è effettuata in modo da garantire la prevalenza dei modelli formativi migliori. Tutti gli enti vengono remunerati allo stesso modo, anziché in rapporto alle rispettive performance. Queste invece potrebbero essere valutate sia in rapporto ai livelli di ricollocamento occupazionale che riescono a favorire, sia a una certificazione dell’effettivo consolidamento delle competenze professionali. Purtroppo non funziona così. Bisognerebbe avere il coraggio di limitare i finanziamenti a chi dimostra le migliori garanzie di efficienza, e invece si distribuiscono le risorse a una miriade di enti formativi.

 

Benché ci si stia addentrando in un periodo di probabile contrazione occupazionale, aumenta il numero delle dimissioni volontarie. Come si spiega questo fenomeno, apparentemente paradossale: in una fase di crisi, non sarebbe più logico tenersi stretto il lavoro?

In realtà in cifre assolute il volume delle dimissioni non è gigantesco, ma rispetto alle serie storiche precedenti quel 30% in più indicato dalle statistiche Istat costituisce una tendenza rilevante. A cosa è dovuto? Abbiamo dati parziali, ma uno sembra importante per interpretare il fenomeno, ed è che non siamo di fronte alle scelte dirompenti di chi molla tutto per cambiare radicalmente vita, bensì alle scelte razionali di persone che nella maggior parte dei casi si preparano a rientrare nel mercato occupazionale svolgendo un lavoro diverso rispetto al passato. Lo si capisce leggendo le Comunicazioni Obbligatorie che i datori di lavoro fanno ai servizi per l’impiego. Insomma chi si dimette lo fa perché ha trovato o sta per trovare un’occupazione migliore. Anziché essere scelto dal datore di lavoro, sono io che scelgo a quale datore di lavoro offrirmi. Direi che è una buona notizia. Non sono abbandoni motivati da disaffezione o rassegnazione. Bisogna aggiungere che si tratta di una tendenza che osserviamo da meno di un anno, ed è legata ad una particolare congiuntura, cioè alla forte ripresa che si è manifestata con il superamento della fase acuta della pandemia. Essendo forte la domanda di profili professionali molto specializzati, per molte persone è diventato possibile ricollocarsi nel modo preferito. Abbiamo assistito così a una riduzione del mis-match (disallineamento) fra titolo di studio ed impiego, che comunque rimane purtroppo ampio nel nostro Paese. Insomma, direi che la crescita delle dimissioni volontarie sembra essere una buona notizia, anche se i rilevamenti statistici si fermano alla fine di luglio. Bisogna vedere cosa accadrà ora che si prospettano tempi duri per l’economia e l’occupazione.

 

La ripresa economica post-Covid ha generato più occupazione, ma per lo più attraverso contratti a termine, a volte anche di brevissima durata. Come valuta questo fenomeno e più in generale la precarietà occupazionale in Italia?

Il nostro mercato del lavoro è afflitto da varie patologie che periodicamente emergono perché non sono mai state curate. Premetto che esiste anche una precarietà fisiologica. Quando riparte un ciclo economico, le aziende si muovono con prudenza perché vogliono capire come veramente si stiano mettendo le cose. Perciò preferiscono puntare su impieghi a tempo determinato. Nell’ultimo anno la ripartenza dei contratti a termine è stata un indicatore di ripresa. Poi c’è una precarietà patologica, che ha origini lontane in un mercato del lavoro sporco, poco presidiato da controlli di legalità, e dal frequente ricorso a contratti fittizi: le finte partite Iva, le pseudo-collaborazioni autonome, i presunti tirocini. Di fronte a questi abusi, talvolta si reagisce incriminando lo strumento piuttosto che l’uso che ne viene fatto. E questo è un errore, perché lo strumento è neutro, sono certi datori di lavoro che lo utilizzano in maniera sbagliata, creandosi dei serbatoi di manodopera sottopagata dietro la maschera fasulla dell’addestramento o della collaborazione esterna. Ciò vale anche per il cosiddetto part-time involontario, che spesso non è altro che lavoro nero pro quota. Si regolarizza il 50% delle ore di lavoro e le rimanenti vengono pagate in nero o addirittura non lo sono affatto. Sono patologie che fatichiamo a superare e proliferano perché non riusciamo a far valere il principio di legalità. I sistemi ispettivi sono inadeguati, così come le verifiche fiscali. Molte aziende vivono di evasione fiscale. Tutto ciò favorisce quelle forme di precarietà patologica di cui parlavamo.

 

Tanta precarietà e tanto lavoro nero sembrerebbero in contrasto con i bassi livelli salariali che contraddistinguono il mercato del lavoro italiano rispetto a Paesi europei simili al nostro per livelli di sviluppo e capacità produttiva. Ingenuamente ci si potrebbe domandare che motivo ci sia di comprimere le retribuzioni regolari, se posso comunque ricorrere a tanti trucchi che mi consentono di risparmiare?

Il fatto è che quando ci si livella verso il basso, poi si è sempre tentati dalla fuga verso ribassi ulteriori. Diversamente dal meccanismo a cui lei faceva riferimento nella domanda, ne scatta un altro, ed è quello della cattiva concorrenza del lavoro nero rispetto a quello legale. In molte situazioni il lavoro nero è un’alternativa alla regolare assunzione. E allora, se vuoi essere in regola non puoi pretendere di avere uno stipendio alto. Il lavoro nero rovina il mercato del lavoro perché crea una competizione al ribasso rispetto alle retribuzioni regolari. Ma il problema principale per quanto riguarda i bassi salari italiani è dato dalla scarsa produttività delle nostri imprese. Se noi osserviamo le curve della produttività e dei salari negli ultimi 30 anni in Italia e le confrontiamo con quelle di Paesi come Germania e Francia, notiamo che rispetto a loro ci separa una distanza che si aggira intorno al 30%. Le nostre curve sono piatte, le loro in ascesa. Noi continuiamo a perdere potere d’acquisto e capacità produttiva, e ci avvitiamo in un circolo vizioso, perché quando si perde produttività si perde valore aggiunto, quando i salari sono bassi non cresce la domanda interna, e in definitiva l’economia si inchioda. Bassa produttività, bassi salari, bassa crescita del PIL (Prodotto Interno Lordo). Bisognerebbe spezzare questa catena, ma per aumentare la produttività sono fondamentali alcune pre-condizioni, e in primo luogo delle infrastrutture competitive. 

 

Ad esempio?

Servirebbero l’elettricità dei francesi, il trasporto merci dei tedeschi, un sistema giudiziario che consenta di risolvere le controversie in tempi ragionevoli. Poi c’è un altra questione. Da tempo ci trastulliamo con la retorica del “piccolo è bello” e del nord-est locomotiva dello sviluppo nazionale. E intanto abbiamo perso la leadership in tutti i settori strategici. Siamo il secondo Paese manifatturiero in Europa ma in quanto sub-fornitori di altre imprese. L’Emilia Romagna, cioè la regione dove il settore manifatturiero è più sviluppato, produce per l’export, soprattutto verso la Germania. Ciò va benissimo, se esporti valore. Se invece esporti prodotti con basso valore aggiunto, questo significa dipendenza. L’obiettivo dovrebbe essere quello di far crescere le nostre imprese per conquistare posizioni strategiche nei settori produttivi più importanti. Vedremo se gli investimenti nel digitale previsti dal PNRR ci consentiranno di recuperare terreno.



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