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Recovery Plan, un treno da non perdere, ma bisogna riformare il mercato del lavoro: l'opinione dell’economista De Romanis

LUNEDÌ 13 SETTEMBRE 2021 | Lascia un commento
Foto Recovery Plan, un treno da non perdere, ma bisogna riformare il mercato del lavoro: l'opinione dell’economista De Romanis
Scritto da Gabriel Bertinetto

I fondi europei del Recovery Plan rappresentano un’occasione imperdibile non solo per rilanciare la crescita produttiva dopo il crollo provocato dall’emergenza sanitaria, ma anche per trasformare in profondità il nostro sistema economico e sociale. Questo vale in particolare anche per il mercato del lavoro. Ne parla in questa intervista la professoressa Veronica De Romanis, che insegna Politica Economica Europea all’Università LUISS di Roma.

 

Con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), elaborato dall’Italia per utilizzare i fondi del Recovery Plan europeo, il nostro Paese si accinge a fare in pochi anni quello che non è stato fatto per decenni. I pessimisti parlano di sfida impossibile. Come evitare il rischio del fallimento?

Direi che stavolta le risorse messe in campo hanno delle  condizionaltà che non ci sono imposte da nessuno, nel caso specifico dall’Europa. Le abbiamo stabilite noi stessi, mettendo nero su bianco un piano che abbiamo inviato a Bruxelles, contenente un crono-programma preciso di investimenti, obiettivi e riforme. Per attuarlo, l’Unione Europea ci dà una montagna di soldi, tanti quanti nessun governo precedente ha mai avuto a disposizione, e più di quanto viene dato agli altri Paesi. Del Recovery Plan siamo i primi beneficiari. La logica che sottostà alla sua applicazione è che ciascuno rispetti i target qualitativi e quantitativi che si è auto-imposto. Se c’è un vincolo dunque, non è un vincolo esterno, ma interno. Inoltre, non soltanto siamo il Paese che riceve più risorse, ma a differenza di altri le usiamo tutte, cioè sia i sussidi che i crediti. Altri, ad esempio Francia Germania Spagna, hanno scelto di accettare solo i sussidi per evitare (questo è il caso soprattutto della Spagna) di appesantire ulteriormente il rapporto debito/PIL (Prodotto Interno Lordo). In Italia questo rapporto è già al 160%. Il prestito che ci fa la UE è ad un tasso agevolato, ma pur sempre di debito si tratta, che va ad aggiungersi ai preesistenti. Conseguentemente il PNRR crea per l’Italia le condizioni di un vincolo intergenerazionale, perché finanziamo colossali investimenti e riforme con soldi a prestito che graveranno come un fardello sulle nuove generazioni. Con il PNRR noi contraiamo un obbligo morale nei confronti di chi verrà dopo di noi.

 

Dunque corriamo il rischio di ritrovarci con un debito enorme?

Noi già abbiamo un debito enorme. Attuando il PNRR lo aumentiamo prendendo al contempo l’impegno di iniziare a ridurlo. Abbiamo già utilizzato 180 miliardi di aiuti e sostegni economici. Lo possiamo fare oggi perché a causa della emergenza sanitaria certe regole di bilancio sono sospese. La Banca Europea ci compra il debito. La politica monetaria è espansiva e continuerà ad esserlo ancora per un po’. Dobbiamo approfittarne subito, perché il contesto è favorevole. Ma questa situazione non durerà in eterno. Nel momento in cui riceviamo i prestiti del Recovery Plan dobbiamo anche iniziare a mettere il rapporto debito/Pil lungo una traiettoria discendente. E questo lo si fa agendo sia sul denominatore che sul numeratore. Si agisce sul denominatore accentuando la crescita, ed ecco perché è importante rispettare gli impegni che prendiamo con Bruxelles sia sugli investimenti che sulle riforme. Si agisce sul numeratore operando una seria “spending review”. Questo non significa solo tagliare la spesa, ma ricomporla in maniera diversa. 

 

In che modo?

La crisi del tutto inaspettata che ci è piombata addosso all’inizio del 2020 ci ha colto nelle condizioni di un Paese con una spesa pubblica sbilanciata in favore delle prestazioni pensionistiche, a detrimento delle politiche sociali e della sanità. Ora è importante ricomporre le voci di spesa e mettere risorse nei settori trascurati, là dove ce n’è più bisogno. 

 

Per accedere ai fondi del Recovery Plan l’Italia si è impegnata ad effettuare importanti riforme. Alcune riguardano singoli comparti, dalla pubblica amministrazione alla giustizia alla sanità. Altre sono per così dire trasversali ai vari ambiti, come la digitalizzazione. Il fatto di dovere fare tante riforme e tutte assieme è un ostacolo alla realizzazione oppure l’interdipendenza costituisce un vantaggio perché costringe a non trascurarne nessuna?

Sono tante riforme, è vero, e i tempi di attuazione sono stretti. Tre sono fondamentali, sono considerate “abilitanti” e riguardano la Pubblica Amministrazione, la Giustizia e la Concorrenza. La UE ce le chiede da anni, perché servono a cambiare il contesto in cui operano le aziende e consentono di attrarre investimenti dall’estero. Ma ci sono altre riforme importanti, in particolare quelle riguardanti le politiche attive per il lavoro. Nel Piano sono inclusi 5 miliardi per il programma  “Garanzia di occupabiltà” (GOL). In particolare è previsto un programma per consentire a tre milioni di persone di ricevere una formazione adeguata, rivedere le proprie competenze ed essere accompagnate sul mercato del lavoro. Importante poi l’allocazione di 600 milioni per potenziare i Centri per l’Impiego che sinora in Italia hanno funzionato male. Gli organici sarebbero notevolmente potenziati: dagli attuali 8mila sino a 20mila. 

 

Altre riforme da fare?

Ce n’è una, che non e finanziata dai fondi europei, ma è non meno essenziale, ed è quella del fisco. L’ultimo rapporto OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ci ricorda che l’Italia detiene record non invidiabili di elevata pressione fiscale. In particolare è troppo alto il cuneo fiscale, vale a dire in sostanza il costo delle imposte e dei contributi che l’imprenditore versa per i dipendenti. L’intenzione del governo su quest’ultimo aspetto è positiva, ma come ha affermato il ministro dell’Economia Daniele Franco, non si può farla a debito. Per attuarla occorre tagliare le spese da qualche parte. Ecco perché è così importante una spending review, che sia di lungo periodo e non sia affidata come è avvenuto in passato a dei commissari tecnici privi di autonomia decisionale. Bisogna che il potere politico se ne assuma la responsabilità. Se si vuole abbassare certe tasse, bisogna anche ridurre le spese e scegliere quali.

 

Ha parlato di politiche attive per il lavoro e della necessità di uscire da una logica puramente assistenziale. Quali potrebbero essere le scelte adatte?

Direi che il governo Draghi si sta muovendo nella giusta direzione. Fondamentale è il potenziamento dei Centri per l’Impiego, ma occorre anche creare una Banca Dati unica. Recentemente abbiamo visto come non abbia avuto successo in Italia un programma molto interessante della Commissione Europea, chiamato “Garanzia Giovani”, destinato ai ragazzi che avevano completato gli studi. L’Italia ha beneficiato di un miliardo e mezzo per organizzarne il training o aiutarli nella ricerca di un impiego. Ma l’operazione è fallita perché non c’è collegamento fra le banche date regionali, né comunicano fra loro i centri per l’impiego e le agenzie private. La formazione è un altro aspetto del problema su cui concentrarsi. Gli imprenditori non fanno che lamentare il mis-match (discordanza) fra domanda e offerta di lavoro. Nel PNRR si punta al potenziamento del sistema di insegnamento duale, in altre parole l’alternanza scuola-lavoro. Laddove viene attuata in maniera intelligente, come in Germania, produce ottimi risultati: solo il 7.5% dei giovani tedeschi è disoccupato, a fronte del nostro 27.7% (dati Eurostat giugno 2021). Altro strumento da sviluppare è l’istruzione negli Istituti Tecnici, che devono essere potenziati. A ciò il PNRR destina un miliardo e mezzo.

 

Ha accennato alla Germania, una realtà di cui lei si è molto occupata nei suoi studi. E’ questo il modello cui ispirarsi per migliorare il mercato del lavoro italiano?

Noi abbiamo un problema cronico che riguarda il funzionamento del mercato del lavoro e della formazione professionale. L’Italia ha reagito alla crisi pandemica con il blocco dei licenziamenti, unico Paese in Europa oltre a Spagna e Grecia, che però l’hanno mantenuto per periodi più brevi. Il blocco ha tamponato il calo occupazionale, ma non l’ha arrestato, come dimostrano gli ultimi dati relativi al lavoro autonomo. Abbiamo introdotto una rigidità infruttuosa, perché non si è accompagnata ad altre politiche attive sul lavoro. Ciò di cui abbiamo particolarmente bisogno è una migliore formazione professionale per tutti, anche per gli over-55, una fascia d’età in cui il tasso occupazionale in Italia è fermo al 43,9%, mentre la media europea tocca il 60,3% e in Germania raggiunge il 72.7%. Abbiamo bisogno che un maggior numero di persone entri sul mercato del lavoro, soprattutto le categorie che oggi sono meno presenti: giovani, anziani e donne. Il problema della scarsa occupazione femminile secondo me è centrale.

 

Perché?

Per tre ragioni. Innanzitutto meno donne lavorano, meno cresce l’economia. In secondo luogo è soprattutto nel mondo femminile che si annida il germe della disuguaglianza. La Caritas sostiene che la figura caratteristica del nuovo povero veste i panni della mamma single senza lavoro. Poi c’è il calo delle nascite. Negli anni sessanta avevamo un bambino per ogni anziano. Oggi 5 anziani per ogni bambino. Il sistema dei conti pubblici e in particolare quello pensionistico non può reggersi in piedi in queste condizioni. La questione demografica non è irresolubile. In 5 anni la Germania è riuscita ad invertire la curva che descrive l’andamento della natalità, passando dal calo all’incremento. Come? Aumentando il tasso di occupazione femminile. Le due cose vanno insieme. 

 

Cosa dovremmo fare in Italia per risolvere il problema demografico? 

Noi abbiamo provato ad affrontare la questione in vari modi, ma sempre con il metodo dei bonus. L’ultima idea è stata quella di razionalizzare i vari interventi, riunendoli sotto un’unica etichetta, quella dell’assegno unico universale. Forse è utile, ma si stratta pur sempre di sussidi temporanei, mentre per agire in profondità sul trend demografico occorre incentivare il lavoro femminile. Ricorrendo alla leva fiscale ma anche creando infrastrutture sociali che lo tutelino. Prima di tutto gli asili nido. Nel PNRR  l’obiettivo del governo è portare dall’attuale 25% al 33% il rapporto fra i posti che globalmente sono disponibili presso le varie strutture d’asilo nido ed il totale della popolazione infantile. Sarebbe un miglioramento, ma siamo pur sempre in ritardo. L’obiettivo del 33% l’Unione Europea se l’era posto per il 2010, mentre oggi la media europea è già al 60%. Ecco, se c’è un appunto che potrei fare al PNRR è di avere immesso pochi fondi (4 miliardi su 230) per finanziare iniziative a vantaggio dell’occupazione femminile. 

 

C’è una coincidenza temporale che potrebbe creare problemi. L’arrivo della prima tranche di fondi europei e l’avvio del loro utilizzo coincide con la fine delle misure straordinarie (blocco dei licenziamenti, sussidi speciali) a tutela delle persone colpite dalla emergenza sanitaria. Le tensioni sociali che ne derivano potranno frenare l’implementazione del PNRR? E viceversa, se si tira diritto con le misure legate al PNRR, si rischia di aggravare il conflitto sociale? 

Il problema esiste, ma teniamo presente questo. Nel momento in cui l’Unione Europea distribuisce ai suoi membri questa grande quantità di soldi, chiede ad ognuno di investire in tre comparti: uno è l’ ecologia, l’altro il digitale, e il terzo è il settore in cui ciascun singolo Paese riceve ogni anno le raccomandazioni ad agire da parte della Commissione UE. Nel caso dell’Italia le raccomandazioni riguardano la necessità di potenziare l’inclusione e la coesione sociale. Sono ambiti in cui il nostro sistema mostra evidenti fragilità. Molte risorse vengono destinate proprio lì, ma i frutti si potranno vedere solo dopo molti mesi. Intanto che fare? Siamo in ritardo nella gestione dell’emergenza. La riforma degli ammortizzatori sociali, annunciata da un po’, ancora non è pronta in tutti i suoi dettagli. Soprattutto non ne sono chiari i costi, né su chi dovrebbero gravare. Le aziende? I contribuenti di oggi? I contribuenti di domani (il ché significherebbe finanziare la riforma in debito)? Sta per terminare il secondo anno della crisi pandemica e questa riforma ancora non si vede. Si è preso tempo con il blocco dei licenziamenti. Ma ora senza la riforma degli ammortizzatori, la presa di tempo rischia di tradursi in perdita di tempo.

 

Visto che parliamo di tempo, che tempi prevede per la ripresa economica ed occupazionale italiana?

I tempi indicati nel Recovery Plan sono molto chiari. E sono tempi stretti. Le risorse devono essere impegnate entro il 2023 e spese entro il 2026. Quando cominceremo a vedere dei risultati tangibili? Difficile dirlo, ma una cosa è certa. Il treno sta passando e bisogna salirci sopra. Abbiamo un’occasione imperdibile. L’alternativa è quella, di tornare indietro alla situazione in cui vivevamo nel 2019, prima che dilagasse il Covid. La situazione di un Paese fanalino di coda quanto a crescita economica, secondo in Europa dopo la Grecia per livello di indebitamento, affetto da una disoccupazione cronica elevata e da produttività stagnante. Non dobbiamo tornare laggiù. Dobbiamo avere tutti la consapevolezza che si tratta di un’opportunità unica e deve essere sfruttata in un arco temporale piuttosto breve. Siamo il Paese che spenderà di più grazie al Recovery Plan e stiamo facendo una scommessa con le future generazioni, perché ci accolliamo 120 miliardi di nuovi debiti EUROPEI. E’ una responsabilità enorme cha ha risvolti di tipo morale.



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