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Risolvono i problemi assieme ai dipendenti. A Biogen la palma di miglior posto di lavoro in Italia: ne parla Cecilia Masserini, responsabile HR

LUNEDÌ 11 APRILE 2022 | Lascia un commento
Foto Risolvono i problemi assieme ai dipendenti. A Biogen la palma di miglior posto di lavoro in Italia: ne parla Cecilia Masserini, responsabile HR
Scritto da Gabriel Bertinetto

Prendersi cura della felicità dei propri collaboratori fa bene all’azienda anche in termini strettamente economici, perché chi è soddisfatto del suo lavoro diventa automaticamente più produttivo. Così dice Cecilia Masserini, Responsabile Risorse Umane di Biogen Italia, azienda farmaceutica con sede a Milano, affiliata ad un gruppo internazionale che è presente in oltre cento Paesi con migliaia di dipendenti. Biogen è specializzata nella ricerca neurologica per il trattamento di malattie come l’Alzheimer, l’atrofia muscolare spinale, la demenza e la sclerosi multipla. La filiale italiana è stata appena premiata come Best Workplace 2022 fra le imprese con un numero di dipendenti compreso fra 50 e 150. Il riconoscimento è stato conferito dalla società di studi e consulenze “Great Place to Work®”. In questa intervista Cecilia Masserini spiega perché.

 

Anche quest’anno, e non è la prima volta, Biogen Italia è stata premiata come “Best Workplace” fra le aziende italiane con un numero di dipendenti compreso fra 50 e 150. Come Responsabile  delle Risorse Umane, ci può spiegare, signora Cecilia Masserini, cosa c’è di tanto speciale nella vostra organizzazione, per essere considerati il migliore posto in cui lavorare in Italia?

Una cosa che ci contraddistingue è il canale di ascolto che cerchiamo di attivare frequentemente verso i nostri collaboratori. Questo al fine di coinvolgerli nella costruzione di soluzioni destinate in prima persona proprio a loro. Spesso formiamo dei gruppi cross-funzionali e inter-funzionali che operano direttamente con le Risorse Umane, il dipartimento che fa capo a me. Così l’ascolto delle esigenze dei lavoratori viene messo al centro dell’attenzione. L’idea è che siano i lavoratori a contribuire alle risposte da dare ai problemi che loro stessi pongono.

 

Sui vostri siti illustrate un’organizzazione che favorisce l’equilibrio fra lavoro e vita privata. Come concretamente?

Innanzitutto con la flessibilità, che è da sempre uno dei temi “caldi” nel rapporto fra individui e attività lavorativa. Noi praticavamo lo smart working prima ancora della pandemia. E abbiamo sviluppato questa modalità organizzativa anche rispetto all’orario di lavoro. Si può cominciare in una fascia compresa fra le 7,30 e le 10,30 del mattino, e conseguentemente terminare prima o dopo a seconda dell’ora d’inizio prescelta. Sembra una banalità, ma si soddisfa così un bisogno molto sentito, permettendo ai singoli di conciliare l’impegno lavorativo con le esigenze individuali e familiari.

 

Ci sono altri modi in cui favorite la flessibilità? 

Sì, ad esempio con il mese sabbatico. Chi abbia raggiunto una certa anzianità di servizio, ha diritto di “staccare” per un mese e dedicarsi ad altro (viaggiare ad esempio), pur percependo regolarmente lo stipendio. Il meta-messaggio che inviamo ai nostri collaboratori è questo: il lavoro conta, ma è importante anche che tu possa gratificarti investendo nella tua vita privata. Nella stessa logica rientrano i permessi retribuiti per il compleanno e le cosiddette “summer hours” e “Christmas hours” di cui i nostri lavoratori possono beneficiare a ridosso dell’estate e del Natale. Si tratta in sostanza di una riduzione dell’orario di servizio, che non incide sulla retribuzione, lascia alcuni pomeriggi liberi e consente di allungare il week-end in periodi dell’anno in cui questo desiderio è piuttosto diffuso. Oltre alle iniziative in favore della flessibilità, ce ne sono altre che mettiamo in campo sempre nell’ottica della speciale attenzione che riserviamo alla vita privata. Ad esempio i permessi genitoriali. In aggiunta alle assenze normalmente consentite, si può fruire di altri 15 giorni in caso di malattia dei figli piccoli.

 

Tutto molto bello. La prima cosa che viene in mente però è che siano concessioni costose. Le può fare un’azienda florida, non una in crisi. 

In realtà molte di queste misure sono a budget zero. Una delle più apprezzate, l’elasticità d’orario, significa semplicemente una diversa distribuzione delle otto ore di servizio quotidiano. Ma anche quelle che apparentemente incidono sul bilancio, non necessariamente comportano un calo della produttività. Certo un buon budget aiuta sempre, ma creare un ambiente di lavoro felice fa bene anche ai conti aziendali. Più le persone si sentono contente, più diventano automaticamente produttive. Dunque quelle che sembrano concessioni costose producono un ritorno anche in termini economici.

 

Un altro vostro fiore all’occhiello è la formazione continua. Come si svolge?

I nostri collaboratori hanno piena libertà di utilizzare il tempo lavorativo per la loro formazione professionale, senza bisogno di prendere appositi congedi. Questa equiparazione di formazione e lavoro avviene su due fronti: uno riguarda insieme l’azienda e l’individuo, l’altro specificamente il singolo lavoratore. Partiamo dal primo. Il presupposto è guardare all’individuo sotto un profilo tridimensionale: in quanto individuo appunto, in quanto parte di un gruppo entro l’azienda, e in quanto parte dell’intera comunità aziendale. Ogni anno Biogen Italia formula piani di sviluppo che includono esigenze formative a diversi livelli. Si valutano quali siano le dinamiche formative utili al singolo lavoratore, al dipartimento di appartenenza, e all’impresa nel suo complesso. Se ad esempio Biogen Italia valuta che è necessario alzare il livello di digitalizzazione dell’azienda, tutti saranno coinvolti in iniziative per aumentare le competenze digitali di ciascuno. Se al gruppo di appartenenza serve incrementare competenze specifiche di quel settore, parte dell’orario lavorativo sarà dedicato a svilupparle. E così via.

 

Ha parlato di due fronti. Se ho ben capito, il secondo concerne l’individuo in quanto tale e le esigenze formative personali anche al di fuori dei piani di sviluppo aziendali. Di che si tratta?

Offriamo a tutti la facoltà di usare un portale di formazione continua, dal quale selezionare autonomamente i contenuti preferiti, ad esempio l’apprendimento o il perfezionamento di una lingua. L’individuo sceglie quanto tempo dedicarvi, quando, e con quale livello di difficoltà. Si è sollecitati ad attivarsi per un processo di formazione permanente di cui si è personalmente protagonisti.

 

La ricerca di “Great Place to Work®“ evidenzia l’importanza che voi date allo scambio di esperienze. Ciò avviene in maniera spontanea e volontaria oppure esistono meccanismi per promuoverlo?

Esistono. Uno è basato su team cross-funzionali, vale a dire gruppi composti di persone appartenenti a diversi dipartimenti che si incontrano per realizzare un obiettivo specifico. Diamo ai singoli la possibilità di uscire dalla propria area di competenze d acquisirne altre. C’è ad esempio un team chiamato “B4U” che affronta i temi legati al benessere dei dipendenti. Si discutono questioni di comune interesse e si suggeriscono soluzioni sulla base delle rispettive esperienze e conoscenze. Un altro è il “Green Team” che si occupa di questioni ambientali. Anche in questo caso il criterio operativo cui ci si attiene è lo scambio delle informazioni per generare proposte operative.

 

Ci sono altre iniziative in cui lo scambio di esperienze si svolge su un terreno più propriamente tecnico?

Abbiamo un processo chiamato “Orbit”, che si riferisce appunto a competenze di natura tecnica. Ogni anno i nostri collaboratori possono candidarsi a dedicare parte del proprio tempo a specifici progetti aziendali, italiani o internazionali. Ad esempio io posso chiedere di essere affiancato per il 30% del mio orario di servizio a un collega di Biogen Svezia che lavora nel dipartimento Finanze, il quale ha bisogno di essere assistito da qualcuno fortemente motivato a imparare di più in quel settore.

 

Nella risposta a una precedente domanda è comparso un vocabolo che non ricorre sempre nei discorsi a carattere economico: “felicità”. In uno dei vostri siti parlate della felicità come “competenza che può essere allenata”. Può spiegare il concetto in maniera di renderlo intellegibile a tutti, infelici compresi?

Facciamo riferimento a quella che viene chiamata “Scienza della Felicità”. La felicità non è solo uno stato d’animo, ma qualcosa su cui si può agire per superare lo stress in direzione del benessere. Sono organizzazioni positive quelle che contribuiscono a quel risultato, e si sentono motivate nell’aiutare le persone ad esercitare questo diritto alla felicità. Significa mettere in atto iniziative e selezionare ruoli operativi affinché l’organizzazione dia ai suoi membri gli strumenti per realizzare quell’obiettivo. Mi rendo conto che il discorso può sembrare astratto. In realtà molto più concretamente qui entrano in gioco proprio quelle scelte aziendali che noi facciamo come Biogen Italia, e di cui parlavo nel rispondere alla sua prima domanda. Non è che l’organizzazione sia responsabile della felicità dei dipendenti. Però mette a loro disposizione alcuni strumenti per realizzarla. Per chiarire meglio posso citare l’esperienza fatta nella fase calante dell’emergenza sanitaria, quando ci siamo curati di chiedere ai dipendenti quali benefici avesse portato il tipo di smart working applicato in piena pandemia e viceversa cosa fosse loro mancato maggiormente in quel periodo. Lo abbiamo fatto affinché il rientro in azienda dopo tanti mesi di lavoro da remoto avvenisse con un programma equilibrato. Questo significa partire non da ciò che è immediatamente produttivo, ma da ciò che rende felici le persone, nella consapevolezza fra l’altro che mettere al centro il loro benessere ha poi un ritorno positivo in termini di produttività.

 

Come selezionate il personale? Valorizzate altri tipi di competenze oltre a quelle tecnico-scientifiche? 

Ci sono alcuni valori fondamentali che ispirano non solo la selezione ma anche la periodica valutazione delle performance individuali. Valori come il senso etico, l’inclusività, lo spirito pionieristico, e altri ancora. Nei criteri di scelta hanno lo stesso peso delle conoscenze scientifiche. Siamo molto attenti ad assumere persone che sappiano bene ciò che devono fare, ma siano altrettanto consce del modo in cui dovranno operare. Se nel corso della selezione i candidati non ci danno garanzie anche su questo terreno, ne deduciamo che in quel momento la persona non è ancora pronta a entrare nell’organizzazione, a prescindere dal suo livello di competenze strettamente tecniche. Come dicevo, anche nei giudizi annuali sul rendimento dei nostri collaboratori, l’aspetto scientifico e quello dell’aderenza al nostro sistema di valori incidono entrambi, ciascuno al 50%.

 

Dunque ogni anno il lavoratore di Biogen Italia riceve un voto. Dal quale deriva che cosa?

La nostra cultura aziendale è quella del “pay for performance”. Questo significa assegnare dei bonus più o meno consistenti a seconda del giudizio che si dà sull’operato dei singoli. La valutazione finale matura attraverso un confronto che si svolge nell’arco di tutto l’anno. Chiediamo ai nostri manager di incontrare i loro collaboratori almeno una volta a trimestre per verificare se esistono problemi da risolvere, particolari esigenze formative, e così via. A fine anno si tirano le somme e ne scaturisce un giudizio rispetto al comportamento dell’individuo, sia sul quanto sia sul come. In altre parole, cosa ha prodotto e in che maniera.

 

Ritiene che la vostra organizzazione del lavoro si adatti anche ad imprese che operano in settori meno specialistici e con dipendenti dotati di un livello culturale inferiore?

Penso che il nostro modello sia applicabile ad altre aziende indipendentemente dal loro core-business e dalle caratteristiche del personale. Se si parte dal presupposto organizzativo che siano i dipendenti medesimi a suggerire soluzioni ai problemi attraverso il loro coinvolgimento da parte dei dirigenti, questa è una filosofia di valore universale. In altre ditte possono esserci problemi diversi e quindi diverse soluzioni. Ma il punto importante è il modo in cui ci si arriva. Faccio un esempio. Durante il lock-down i nostri collaboratori hanno manifestato la necessità di ricorrere a uno psicologo per chi faticava ad adattarsi a quel tipo di situazione. Noi abbiamo offerto questa possibilità. In altre imprese possono emergere esigenze diverse, e non quella. Agli altri imprenditori diciamo: non prendete lo spunto dal contenuto delle nostre iniziative, ma dal metodo. Consultare i dipendenti e ascoltare le loro proposte è valido per ogni tipo di azienda.

 

Il riconoscimento come Best Workplace 2022 evidenzia un Trust Index (Indice di Fiducia) pari al 91%. La stragrande maggioranza dei dipendenti ha fiducia nei dirigenti ed è contento del proprio lavoro. Ci sarà pure qualcosa che non funziona in Biogen Italia?

E’ vero, il livello di soddisfazione è molto elevato. Certo ci sono momenti di confronto nei quali emergono criticità. Ma ciò che conta è l’approccio a queste ultime. Noi sollecitiamo un continuo feedback. Dire e sentirsi dire quali sono le cose che non vanno bene rappresenta un’opportunità di riflessione costante, e consente o di promuovere dei cambiamenti oppure di spiegare per quali motivi in certi casi non si possono apportare i correttivi suggeriti. Anche chi non viene accontentato nella sua richiesta apprezza il fatto che gliene venga spiegata la ragione. Laddove c’è dialogo, non si creano criticità irresolubili. E’ importante l’ascolto, il coinvolgimento, il feedback. Questo approccio dialettico è utile anche nei rapporti con le altre aziende. Noi ci confrontiamo continuamente con gli altri, sia coloro che operano nel nostro stesso ambito produttivo, attraverso il network di Farmindustria, sia coloro ai quali siamo vicini per certi fondamentali criteri operativi comuni alle cosiddette “organizzazioni positive”.

 

C’è qualche parte del vostro modus operandi che riguardi in particolare il lavoro femminile?

In Biogen Italia il personale è composto al 65% da donne. Forniamo specifiche tutele legate alla maternità. C’è un consulente del lavoro per le pratiche burocratiche che sorgono prima e dopo il parto. Inoltre a ogni donna in maternità viene assegnato un “buddy”, cioè un compagno/a di lavoro da cui, se si vuole, si può essere informate e aggiornate su quanto avviene in azienda durante il periodo di assenza. Questo serve a ridurre la sensazione di disconnessione ed estraneità che si può provare sia in quei mesi sia successivamente al momento del rientro. Altre misure, come i 15 giorni di permesso speciale per le malattie dei bambini riguardano sia la mamma che il papà.

 

Siete una ditta privata impegnata nella ricerca biologica applicata alla cura delle patologie neurologiche. Le implicazioni sociali del vostro operato sono evidenti. Che rapporti avete con le associazioni dei pazienti e con il sistema sanitario pubblico?

Siamo consapevoli di svolgere una missione delicata. Sappiamo quale forte impatto abbia la nostra attività sulla vita collettiva e individuale. Da questo deriva la necessità di un approccio collaborativo con i pazienti e le loro associazioni. D’altra parte se diamo tanta importanza al benessere dei nostri dipendenti e puntiamo a coinvolgerli in quello che facciamo, sarebbe assurdo non facessimo la stessa cosa rispetto agli altri soggetti dell’ecosistema sanitario, compresi i pazienti e il servizio pubblico.



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