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SCELTA O RIPIEGO, MA IL PART-TIME VOLA

MARTEDÌ 21 LUGLIO 2020 | Lascia un commento
Foto SCELTA O RIPIEGO, MA IL PART-TIME VOLA
Scritto da Gabriel Bertinetto

Chi avesse letto con disattenzione i dati pubblicati dall’Istat alla fine del 2019, si sarebbe rallegrato nell’apprendere che in Italia l’occupazione era in crescita: +0,9% rispetto all’anno prima. In cifre assolute risultavano avere un lavoro quasi 23 milioni e mezzo di persone, poco meno di tre quinti della popolazione attiva. Continuando la lettura in maniera più approfondita si sarebbe però scoperto che a pesare sull’aumento era soprattutto il lavoro a tempo parziale (part-time). Tanto che, il conteggio delle ore lavorate complessivamente risultava addirittura in calo. In altre parole più persone al lavoro, ma meno lavoro. 

Oggi in Italia quasi un quinto degli occupati sono a orario ridotto. Siamo poco sotto la media europea, anche se ben lontani dai livelli dell’Olanda che sfiora il 50% o della Svizzera (38%) o di Austria e Germania (27%). Da noi come altrove la diffusione del part-time non è un fenomeno recente. Al contrario, è una tendenza costante e consolidata. Negli ultimi dieci anni gli impieghi a tempo parziale sono aumentati di oltre un milione di unità, il ché in percentuale significa un poderoso più 31%. 

Un grafico pubblicato dalI’Istat fotografa, o se vogliamo filma, l’andamento del part-time in Italia, ed è per così dire un indizio documentale per prevederne l’estensione futura. Il disegno descrive il contributo sia del tempo pieno sia del tempo parziale alla variazione tendenziale dell’occupazione in Italia dal 1994 ad oggi. La linea del tempo pieno si muove come l’elettrocardiogramma di un cardiopatico con impennate improvvise fra il 1994 e il 1996 e all’inizio del nuovo millennio, e precipitazioni abissali durante il periodo della grande crisi fra 2008 e 2013. Il tracciato che corrisponde allo sviluppo del part-time dà l’idea invece di una tranquilla passeggiata in collina, fra alti e bassi contenuti e una graduale propensione all’ascesa. 

Gli esperti spiegano la diffusione dell’orario ridotto con la progressiva terziarizzazione del mercato del lavoro. Dilatandosi la quota del terziario, cioè dei servizi, crescono al suo interno i contratti a tempo parziale, verso i quali gli altri settori produttivi rimangono refrattari. Nell’industria l’incidenza del part-time nell’ultimo decennio è rimasta infatti sostanzialmente stabile intorno all’8%, così come nell’edilizia (poco più del 7%). Viceversa è salita vertiginosamente nel settore del turismo e in particolare nell’attività alberghiera e di ristorazione passando dal 27% al 35%. 

In generale però i datori di lavoro sono più propensi del passato a stipulare accordi sul part-time. E se non stupisce che questo avvenga per i cosiddetti servizi alle famiglie (badanti, domestici, etc), suscita qualche sorpresa l’incremento del lavoro a tempo parziale nella sanità (26% rispetto al 20% del 2008) e perfino in ambiti in cui le caratteristiche stesse del lavoro non favoriscono il ricorso all’orario ridotto, come il giornalismo e la comunicazione: 12,9% e in costante crescita.

Ciò detto, va precisato che in Italia il part-time è prevalentemente un ripiego rispetto alla difficoltà di trovare un’occupazione a tempo pieno. Se disaggreghiamo il dato fornito all’inizio (1 milione abbondante di part-timers in più registrati nel 2019 rispetto a dieci anni prima) troviamo due valori di segno opposto, la cui somma algebrica porta a quella cifra. Da una parte abbiamo 1 milione e 560mila part-timers “involontari” in più, dall’altra 400mila in meno fra i “volontari”, cioè coloro per i quali l’orario ridotto dipende da ragioni familiari o dalla necessità di mantenersi agli studi, e non dalla carenza di offerta di impiego a tempo pieno.

Quanto appena detto introduce una questione fondamentale: il part-time è una scelta o una condizione indesiderata imposta da un mercato del lavoro in cui l’imprenditore spesso preferisce contratti per così dire meno impegnativi? Escludiamo i casi palesemente illegali, in cui il contratto part-time copre una parte delle ore lavorate, e il resto viene pagato in nero o non viene pagato affatto. Limitiamoci alle situazioni misurabili statisticamente sulla base dei dati palesi. Ebbene, almeno in Italia, il part-time è ancora in massima parte “involontario”. Si accetta un lavoro ad orario ridotto perché non se ne trova uno a tempo pieno. E’ sempre l’Istat a rivelare come questo sia vero non solo nell’arco del decennio appena trascorso, ma in particolare nel 2019: dei 164 mila nuovi lavoratori part-time, la maggior parte, 81mila, avrebbe preferito il tempo pieno ma non ha avuto scelta.

 

I dati in Europa

Accade anche nel resto d’Europa, ma in misura generalmente assai meno marcata rispetto all’Italia. Si nota inoltre che i Paesi in cui il part-time “involontario” è meno diffuso sono quelli in cui il part-time nel suo insieme (compreso quello “volontario”) abbonda. Prendiamo il caso dell’Olanda, dove quasi metà della popolazione lavora a tempo ridotto ma solo per l’8% dei “part-timers” ciò rappresenta una costrizione indesiderata. Lo stesso fenomeno si verifica in Austria, Germania, Danimarca e Regno Unito, dove i “part-timers” sono circa un quarto dei lavoratori, ma la percentuale degli involontari si situa fra il 12 e il 16% soltanto.

Eurostat rivela che su scala europea l’involontarietà contraddistingue il 26% circa dei part-timers. Ampiamente al di sotto di questo livello medio, oltre all’Olanda, sono Belgio, Estonia , Repubblica Ceca e Malta (tutti su valori compresi tra 7,5 e 9,6%). Nettamente al di sopra invece, gran parte dei Paesi mediterranei e del sud Europa in genere. In questa classifica negativa l’Italia occupa una posizione elevata con il suo 62%, preceduta solo da Grecia con il 70% e Cipro con il 67%. Più o meno al nostro livello la Spagna. Seguono Bulgaria (58%), Romania (55%), Portogallo (47%) e Francia (43%).

Da tutto ciò si può concludere che un mercato del lavoro in cui un’ampia quota di impieghi siano a tempo parziale, non è necessariamente sintomo di disfunzioni. Il part-time è fisiologico quando corrisponde a un’esigenza del lavoratore, anziché essere subìto come il male minore. 

C’è poi un altro aspetto significativo da prendere in considerazione. Il part-time è, come si suol dire, essenzialmente “rosa”. Dei  quasi 41 milioni di part-timers europei (dati del 2018), più di 31 sono donne, 9,5 uomini. Non ci sono eccezioni. Secondo dati OCSE (Organizzazione per il Commercio e lo Sviluppo Economico) sono a orario ridotto il 60% delle lavoratrici olandesi rispetto al 30% dei loro connazionali maschi. Rapporti percentuali analoghi in Regno Unito (50 e 20), Francia (40 e 22), Germania (47 e 19), Italia (39 e 15).

Venendo al caso specifico italiano, la preponderanza femminile è nettissima. Su 4 milioni e mezzo di part-timers, le donne sono 3 milioni e 300mila circa, vale a dire quasi tre quarti del totale. Sono molte di più, e primeggiano in particolare in quella sezione del cosiddetto part-time “volontario” che è motivato dalla necessità di assistere minori e disabili. Solo l’1% degli maschi sceglie il part-time per poter dedicarsi a quel tipo di cure, a fronte di un ben più consistente 19% in campo femminile. Da questo punto di vista non siamo molto lontani dalle medie europee: 6% gli uomini, 29% le donne.



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