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Un piano triennale per la lotta al lavoro sommerso

LUNEDÌ 05 GIUGNO 2023 | Lascia un commento
Foto Un piano triennale per la lotta al lavoro sommerso
Scritto da Gabriel Bertinetto

Secondo i dati recentemente diffusi da Eurostat più di un quarto della popolazione dei Paesi UE non ha né cerca un impiego. Ma in Italia gli “inattivi” sono addirittura più di un terzo. Per essere più precisi, se la media europea dei disoccupati che non risultano impegnati nella ricerca di un lavoro si attesta intorno al 25,5%, la percentuale Italiana è addirittura pari al 34,5%. Oltre la soglia del trenta per cento, ma dietro di noi, ci fanno compagnia solo Romania Grecia e Croazia. A rendere forse ancora più amaro questo nostro infelice primato è l’ipotesi che esso dipenda almeno in parte dalla larga diffusione del lavoro sommerso. In altre parole i veri inattivi sono meno di quello che risulta dalle statistiche, ma solo perché è molto elevato il numero degli occupati irregolari.

Le ultime stime sulla diffusione del lavoro sommerso in Italia fotografano la situazione maturata sino al 2020, cioè alla prima fase della pandemia.  L’Istat calcola in poco meno di 3 milioni il numero dei lavoratori privi di regolare contratto. Il dato è in calo rispetto all’anno precedente, ma questo dipende dalle restrizioni legate alle misure di contrasto al Covid, che rendevano più difficile e pericoloso svolgere attività in nero. La cifra di 3 milioni corrisponde più o meno al dodici per cento dei lavoratori italiani. Secondo l’ufficio studi della CGIA (Confederazione Generale Italiana dell’Artigianato) di Mestre però, il numero, almeno sino alla prima parte del 2020, era ancora più alto: 3 milioni e 200mila fra chi opera in pieno anonimato contributivo e fiscale (lavoro nero) e chi lo fa in maniera parziale, attraverso contratti fittizi che evadono buona parte degli obblighi di legge (il cosiddetto lavoro grigio). 

Il lavoro sommerso, quando si tratta di prestazioni sporadiche e occasionali, viene a volte considerato fisiologico. Si entra in ambito per così dire patologico quando viene praticato in maniera sistematica e continuativa. E questo per due ordini di ragioni. In primo luogo vengono a mancare le coperture assicurative in caso di infortunio ed ogni forma di tutela giuridica in caso di licenziamento, oltre ad essere precluso il godimento futuro della pensione. In aggiunta a questi danni che riguardano il prestatore d’opera, ci sono quelli inferti alla collettività in termini di mancato versamento di imposte e violazione delle norme sulla libera concorrenza.

Su questi ultimi aspetti del problema si sofferma un recente studio di Censis e Confcooperative nel quale si rileva come il ricorso al “sommerso” comprima il costo del lavoro di oltre il 50%, con il risultato di mettere “spesso fuori mercato le aziende che operano nella legalità”. L’evasione contributiva stimata da Censis e Cooperative è pari a 10,7 miliardi. Lo studio cita i dati raccolti dalla “Commissione sull’economia non osservata” del Ministero dell’Economia secondo cui il salario medio orario legale si aggira intorno ai 16 euro, mentre quello distribuito dagli imprenditori disonesti supera di poco gli 8 euro.

Interessante l’analisi diacronica del “sommerso” svolta dall’ISTAT, che individua quattro diverse fasi nel periodo compreso fra il 1995 ed il 2020. Inizialmente, ed in particolare nel triennio 2001-2003, si nota un notevole calo del lavoro irregolare, provocato in buona parte dalla sanatoria varata in quegli anni a vantaggio degli immigrati irregolari. Fra il 2003 e il 2011 la quota di “sommerso” rimane più o meno costante: circa il 12,3% sul totale delle prestazioni lavorative. Un deciso peggioramento (13,5%) caratterizza la terza fase, compresa fra il 2012 e il 2015, che coincide con la crisi economica internazionale. Il tasso poi cala nuovamente sino al 12% del 2020, ultimo dato disponibile.

Come si può facilmente immaginare la piaga del lavoro sommerso è più o meno profonda a seconda delle zone geografiche e dei settori produttivi. Secondo la CGIA di Mestre il territorio più colpito è la Calabria. I suoi 132 mila lavoratori irregolari generano un valore aggiunto superiore al 9% del valore aggiunto regionale complessivo. Segue la Campania con poco più dell’8%, mentre all’ultimo posto si colloca il Veneto, il cui pur cospicuo numero di individui che operano in nero o in grigio (203 mila circa) crea solo il 3,6% del valore aggiunto realizzato nella regione.

Per quanto riguarda le categorie lavorative, quella in cui l’illegalità dilaga è l’assistenza casalinga. Degli oltre 3 milioni di italiani occupati irregolarmente un quarto sono Colf, badanti e altre figure dedite alla cura delle persone a domicilio. Meno di una su due di queste figure professionali sono assunte con contratti a norma di legge. In cifre assolute l’Istat calcola che gli irregolari nel settore domestico siano quasi 782 mila. Ampia è la diffusione del “sommerso” anche nell’agricoltura. Un quarto delle persone che lavorano la terra opera in nero. In questa classifica settoriale dell’illegalità al terzo posto figurano poi quasi appaiate le attività di ristorazione e ospitalità da un lato e l’edilizia dall’altra. In entrambi i casi il tasso di irregolarità si aggira intorno al 15%.

A tutte le buone ragioni che spingono ad iniziative che rendano più trasparente quella parte di economia che nel gergo degli specialisti viene a volte definita “non osservata”, se ne è aggiunta in questi ultimi anni una direttamente legata all’attuazione del PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza). Sinora il contrasto al lavoro nero o grigio aveva lo scopo di restituire agli individui i diritti negati e allo Stato i mancati introiti fiscali. Ora è anche uno degli adempimenti richiesti dall’Unione Europea ai Paesi membri affinché possano essere erogati i fondi con i quali realizzare gli investimenti indicati nel PNRR. Una delle missioni del PNRR, la quinta, che riguarda l’inclusione e la coesione sociale”, ha fra i suoi obiettivi proprio una più incisiva azione contro il “sommerso”. Per raggiungere questo traguardo il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con il contributo dell’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive per il Lavoro), di associazioni imprenditoriali e sindacali ed istituti di ricerca, ha varato un “Piano nazionale per la lotta al lavoro sommerso”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 22 dicembre.

L’attuazione del piano presuppone un potenziamento degli strumenti informatici di indagine. L’esistente “Portale Nazionale del Sommerso” (PNS) dovrebbe essere rafforzato con il contributo di vari enti fra cui ISTAT, INAIL, INPS. Oltre a ciò si punta ad ampliare gli interventi affidati all’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) e a una più efficace attuazione delle misure contro il “caporalato”, una modalità di reclutamento illecito di manodopera particolarmente diffuso nelle campagne che spesso sfocia addirittura in forme di moderno schiavismo. Il Piano nazionale per la lotta al lavoro sommerso ha durata triennale e dovrebbe essere attuato entro il 2025. Troppo presto per capire se alle parole seguiranno i fatti o se in futuro sarà giudicato come l’ennesimo semplice elenco di buoni propositi. 



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