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Troppe risorse di lavoro inutilizzate nel sistema produttivo italiano. Così l’economista Mario Calderini

MARTEDÌ 30 SETTEMBRE 2025 | Lascia un commento
Foto Troppe risorse di lavoro inutilizzate nel sistema produttivo italiano. Così l’economista Mario Calderini
Scritto da Gabriel Bertinetto

I salari reali in Italia calano anziché crescere perché nella nostra economia predominano settori a basso valore aggiunto. Sintomatica è la trasmigrazione di lavoratori da industrie manifatturiere in crisi ad aziende della grande distribuzione. Abbiamo risorse del lavoro che restano inutilizzate per il basso tasso di imprenditorialità che caratterizza il nostro Paese e perché la rigidità dei modelli d’impresa impedisce ai giovani e alle donne di esprimere le loro potenzialità. Queste sono alcune delle considerazioni svolte nella seguente intervista dal prof. Mario Calderini, che insegna “Impresa e Decisioni Strategiche” presso il dipartimento di Ingegneria Economica Gestionale del Politecnico di Milano. 

 

Fra i 37 Paesi membri dell’OCSE l’Italia è quello in cui, dal 2021 ad oggi, si è registrato il più forte calo dei salari reali: 7,5% . Non solo, l’OCSE prevede che nei prossimi due anni i salari nominali in Italia cresceranno sì, ma meno che negli altri Paesi. Come spiega, prof. Calderini, questo doppio trend negativo?

La risposta è abbastanza semplice, e non partirei tanto dai difetti del nostro mercato del lavoro, che certamente hanno a che vedere con il fenomeno. Preferirei prendere il problema, per così dire, dalla testa. In Italia sostanzialmente le caratteristiche del sistema industriale sono rimaste invariate da decenni. Continuiamo a specializzarci in settori produttivi a basso valore aggiunto, e temo purtroppo che nulla cambierà per lo meno in un arco di tempo ragionevolmente prevedibile, perché da troppi anni le politiche industriali nel nostro Paese sono carenti. L’ultimo sforzo innovativo in questo ambito risale al 2006 con le iniziative dell’allora ministro Bersani. Per venire alla questione dei salari reali, è chiaro che se la capacità di posizionarsi meglio nel sistema industriale cala, non ci si può aspettare che cresca la produttività e che conseguentemente aumentino i salari. Non è solo una questione di contrattazione sindacale. Se la torta è piccola c’è poco da spartire, non c’è valore su cui negoziare. E’ piuttosto significativo quello che accade nelle regioni settentrionali, come Lombardia, Piemonte, Veneto, che hanno un’economia ad accentuata connotazione manifatturiera. Assistiamo al susseguirsi di crisi industriali che non producono disoccupazione solo perché le persone licenziate si ricollocano in settori caratterizzati da attività commerciali a basso lavoro aggiunto. Gli individui espulsi dalle aziende del “manifatturiero” trasmigrano verso la filiera della logistica e della grande distribuzione dove in generale i trattamenti salariali sono inferiori a quelli dell’industria, come ben sanno i dipendenti di Amazon o Glovo, tanto per fare qualche esempio.

 

E’ ancora l’OCSE nel rapporto “Employment Outlook 2025” ad affermare che in Italia esistono ingenti “risorse di lavoro inutilizzate”. Di che si tratta? Come interpretare questo fenomeno?

L’interpretazione più facile è generazionale. Esiste una scarsa mobilità verticale del lavoro. Il nostro è un mercato del lavoro in un certo senso inerte. Abbiamo inoltre un basso tasso di nuova imprenditorialità. La rigidità dei modelli d’impresa impedisce ai giovani e alle donne di esprimere le loro potenzialità.

 

A questo proposito, come commenterebbe le affermazioni di Andrea Brandolini, vicecapo del Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia, secondo cui senza una crescita del tasso di partecipazione femminile e giovanile al mercato del lavoro, a parità di altre condizioni, il PIL nei prossimi 25 anni calerà del 9%?

C’è anzi forse da sperare che quella previsione non sia eccessivamente ottimistica! Uno dei problemi per quanto riguarda la partecipazione giovanile al lavoro riguarda gli squilibri territoriali che hanno aspetti drammatici. Le possibilità di impiego sono concentrate in alcune aree geografiche e ciò produce delle sproporzioni fortissime. Una metropoli come Milano ad esempio offre grandi possibilità di lavoro ma è spesso inaccessibile ai giovani anche per l’alto costo degli affitti. Viceversa in città non lontane dal capoluogo lombardo, come Novara, Vercelli, o Treviso, per i ragazzi trovare un impiego è difficile. Spesso si ragiona sui valori medi del rapporto fra domanda e offerta, ma le asimmetrie geografiche sono non meno importanti. In Italia poi questo insieme di problemi è esacerbato anche da inerzie di tipo culturale. La propensione ad avere una casa in proprietà ad esempio è un limite alla mobilità del mercato del lavoro, un ostacolo ai trasferimenti che si ripercuote negativamente sulle possibilità di incontro fra domanda e offerta di lavoro. Per quanto riguarda in particolare le donne, sottolineerei come le politiche pubbliche continuino a trascurare gli investimenti negli asili nido. Nemmeno il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) vi ha destinato grandi risorse. Continuano a difettare strutture e progetti per una migliore conciliazione fra vita privata e attività lavorativa, e questo ha un impatto particolarmente sfavorevole sull’occupazione femminile.

 

Dal rapporto annuale 2025 dell’Istat risulta che quasi un quarto della popolazione è a rischio povertà o esclusione sociale. Tale rischio, sempre secondo l’stat, è più alto nelle famiglie in cui il principale percettore di reddito è di età inferiore ai 35 anni. Oltre che il record della disoccupazione i giovani italiani detengono anche il poco invidiabile primato della maggiore esposizione all’impoverimento. Un quadro piuttosto fosco sul quale gradirei una sua riflessione.

Aggiungo che non è soltanto il basso tasso di occupazione giovanile a preoccupare, ma l’alto numero dei cosiddetti NEET, un acronimo inglese usato per definire coloro che non solo sono disoccupati ma non studiano e non sono inseriti in percorsi di formazione professionale. La percentuale di NEET nella fascia d’età compresa fra 19 e 24 anni raggiunge il 22%. Per quanto riguarda la povertà, suscita allarme il fatto che si diffonda anche fra chi un lavoro ce l’ha. Le statistiche rivelano il consistente numero di ragazzi occupati che vivono al di sotto della cosiddetta soglia di povertà. Naturalmente questo ha molto a che vedere con la questione di cui parlavamo all’inizio, i bassi salari. Certe forme esasperate di flessibilità hanno concorso alla precarietà e all’indigenza. Molti giovani così faticano a trovare accesso ai mercati finanziari e ad ottenere prestiti dalle banche per progettare il proprio futuro.

 

Nei ragionamenti da lei svolti rispondendo ad alcune delle precedenti domande, emerge implicitamente il problema del mismatch (disallineamento) fra domanda e offerta di lavoro, frequentemente denunciato nelle indagini Excelsior di Unioncamere. Quali sono le sue valutazioni?

E’ un tema complesso. Un aspetto è la qualità dell’offerta che nell’insieme non è molto alta. Ciò rimanda alla radice strutturale di questa problematica, che risiede in un sistema educativo inadatto a valorizzare gli studi tecnici. Questa è una delle principali ragioni per cui le aziende faticano a trovare il personale di cui hanno bisogno. I vari tentativi sinora effettuati di riformare i nostri ordinamenti scolastici e formativi sono stati infruttuosi. L’insegnamento di materie tecniche e scientifiche rimane marginale. Oltre ad una persistente convinzione nella superiorità dei modelli di apprendimento di tipo umanistico, ci sono altre ragioni “culturali” che contribuiscono a relegare in secondo piano gli studi scientifici. Abbiamo attraversato una lunga stagione, che definirei “berlusconiana”, in cui veniva esaltata la finanziarizzazione dei mestieri, il ché ha creato false aspettative di guadagni facili. Contemporaneamente venivano per così dire ghettizzate attività, come quelle del perito informatico o delle tecnologie applicate all’energia, che nei Paesi del nord Europa sono invece premiate e sviluppate. Un abile falegname o un capace installatore di impianti di riscaldamento non sono considerate da noi figure attrattive o modelli ai quali ispirarsi. Ion aggiunta a tutto ciò il nostro sistema di riqualificazione professionale è insufficiente. Manca un sistema di formazione costante e permanente, il ché contribuisce a quella situazione di cui parlavamo all’inizio, l’esistenza cioè di risorse non utilizzate. 

 

Durante un evento organizzato recentemente dai Politecnici di Milano e di Bari, lei ha affermato che “innovazione e sostenibilità dovrebbero convergere in un unico principio”. Cosa intendeva dire esattamente?

Due cose. In primo luogo alludevo al fatto che stiamo perdendo la sfida posta dalla necessità di ri-specializzare il nostro sistema produttivo all’insegna di tecnologie pulite e meccanismi di sviluppo sostenibili. Molte aziende si cullano in un’interpretazione alquanto facilina e di maniera dell’ecosostenibilità, basata sulla logica di una compensazione fra l’inquinamento che si continua da un lato a provocare, e dall’altro l’attuazione di iniziative importanti ma marginali come la palestra per i dipendenti o gli alberi piantati in qualche parte nel mondo. Si elude così l’obiettivo principale che sarebbe quello di investire nella Green Technology. L’altro punto che intendevo sottolineare è la prevalenza nel nostro sistema industriale di pochi grandi gruppi, derivati da ex-aziende pubbliche come Finmeccanica, Enel, Eni, i quali rimangono legati a modelli di innovazione superati, fondati sulla presunzione che le risorse del pianeta siano infinite sia in senso materiale sia per quanto riguarda la disponibilità di manodopera a basso costo. Manca la presa d’atto che oggi la chiave della vera innovazione sta nella frugalità, perché le risorse si stanno progressivamente esaurendo. Prendiamo ad esempio in considerazione l’Intelligenza artificiale. Il suo potenziamento richiede lo sfruttamento di ingenti quantità di acqua e di energia, e ciò va fatto seguendo logiche che escludano sprechi ed usi eccessivi. Molti imprenditori e molte autorità pubbliche restano invece legati a un’immagine di innovazione energivora ed inquinante, alla quale può giovare anche lo sfruttamento delle disuguaglianze sociali e degli squilibri geopolitici.

 

Per rinvigorire il mercato del lavoro, a giudizio di molti esperti, è importante l’apporto degli immigrati, che secondo la Banca d’Italia colma i vuoti creati dal declino della popolazione. Il tema è molto controverso. Lei che ne pensa?

Sarò netto. Il PIL sale se cresce il numero delle persone attive. I dati sui trend demografici sono troppo chiari perché non ci si renda conto del contributo rilevante che per lo sviluppo economico comporta l’afflusso di stranieri, siano essi qualificati oppure no. Servono teste ed energie, Senza l’immigrazione non si va da nessuna parte. Certo si tratta di governarla intelligentemente e valorizzarla al meglio, inserendo i nuovi arrivati in contesti scolastici e formativi che permettano sia l’inserimento sociale sia l’accrescimento delle capacità individuali. Rendiamoci conto fra l’altro che nonostante tante polemiche sulla presunta invasione di cui saremmo vittima, l’Italia è uno dei Paesi europei con il tasso di immigrazione più basso. Non considererei troppo negativamente nemmeno il fenomeno opposto, cioè la cosiddetta fuga dei cervelli. La soluzione non sta tanto nel trattenere i fuggiaschi, ma in un sano bilanciamento dei flussi in entrata e in uscita, e nell’offrire ai potenziali emigranti occasioni di lavoro attrattive in ambienti urbani vivibili.



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