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Pensioni tra riforme e palliativi: il confronto con il modello svedese

MERCOLEDÌ 29 OTTOBRE 2025 | Lascia un commento
Foto Pensioni tra riforme e palliativi: il confronto con il modello svedese
Scritto da Gabriel Bertinetto

Il recente rapporto Inps sul sistema pensionistico italiano ha confermato nei loro timori coloro che da anni si interrogano sulla sua sostenibilità a fronte delle allarmanti dinamiche demografiche in atto. Come è noto, mentre le aspettative di vita crescono, le nascite diminuiscono. Detto in parole povere, aumentano i fruitori delle pensioni, mentre diminuiscono coloro che con i contributi trattenuti sui loro stipendi alimentano i fondi a cui attingono gli istituti erogatori, l’Inps in primo luogo, per distribuire gli assegni a chi ne ha diritto. Diversi esperti sostengono da tempo la necessità di una nuova riforma complessiva del settore. Come si può ben immaginare la materia è incandescente, ed ogni volta che qualcuno prova a metterci le mani rischia di scottarsi. Basta pensare al tentativo operato sotto il governo Monti dalla ministra Fornero durante la grave crisi finanziaria del 2011. Da allora le pensioni sono state oggetto di attenzione da parte dei politici, più per interventi destinati a turare falle o aprire qualche finestra di opportunità, che non per rielaborazioni di ampio respiro. Prendendo spunto dalla terminologia edilizia, si potrebbe parlare di piccole riparazioni piuttosto che di una ristrutturazione complessiva.

In questo tipo di iniziative sembra rientrare la recente proposta governativa di utilizzare il TFR (Trattamento di Fine Rapporto) per anticipare il momento dell’accesso alla pensione. L’idea è rivolta in particolare a coloro che avendo iniziato a lavorare dopo il 1995 rientrano nel cosiddetto sistema pensionistico “contributivo”. Chi fra costoro intende andare in pensione a 64 anni (anziché ai 67 prescritti per legge), in base alle regole vigenti deve avere alle spalle almeno 25 anni di versamenti contributivi e deve altresì avere maturato il diritto ad un assegno pari a 1.616 euro, vale a dire il triplo rispetto alla cosiddetta pensione minima. La proposta ventilata da un ministro dell’esecutivo in carica consentirebbe di destinare parte del TFR al superamento di quella soglia. Come è inevitabile si è subito scatenata la disputa tra favorevoli e contrari, nel contesto della consueta bagarre di fine anno attorno al varo della legge di bilancio. Senza addentrarsi nei particolari di un dibattito in evoluzione, ci limiteremo a delineare alcune caratteristiche del sistema pensionistico italiano e ad accennare brevemente a qualche alternativa possibile. 

In primo luogo è giusto rilevare che, a compensare almeno in parte le preoccupazioni sulla tenuta del nostro sistema pensionistico, è la graduale tendenza all’aumento dell’effettiva età media di pensionamento: oggi essa sfiora i 64 anni mentre era 58 nel 2000. Meglio però non farsi troppe illusioni. Se confrontiamo l’ampiezza dei periodi lavorativi che precedono il pensionamento nei vari Paesi dell’Unione Europea, scopriamo che da noi essa è inferiore rispetto a tutti gli altri, con l’eccezione della Romania. Basandosi su dati Eurostat  il centro studi della CNA (Confederazione Nazionale Artigianato e pIccola e media industria) afferma che la vita lavorativa italiana è di soli 32,8 anni mentre la media UE è superiore a 37, con punte che oltrepassano i 40 anni in Olanda, Svezia, Danimarca. In assenza di cambiamenti radicali l’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Finanziarie) stima che alla metà del secolo in corso il rapporto fra lavoratori e pensionati sarà di 1 a 1. Commentando l’andamento demografico italiano Natale Forlani, presidente dell’Inapp, sottolinea preoccupato le conseguenze importanti che ne derivano circa la “sostenibilità del mercato del lavoro e delle prestazioni”. 

Un modello interessante a cui ci potremmo ispirare per una riforma globale del sistema pensionistico, secondo alcuni economisti fra i quali Sandro Gronchi, già docente presso l’Università Sapienza di Roma, è quello svedese. Esso poggia su alcuni solidi pilastri, fra i quali la relativa semplicità nei meccanismi di calcolo. Inoltre non è prigioniero di una miriade di regimi speciali come quelli accumulatisi nel tempo in Italia attraverso una serie infinita di modifiche, a volte mirate a proteggere categorie svantaggiate, ma spesso destinate a riscuotere facili consensi elettorali anziché a riformare il sistema in maniera razionale ed equa. 

In Svezia l’età a cui si può andare in pensione è piuttosto elevata, ma è consentita una certa flessibilità in uscita. Mentre in Italia la soglia prescritta si raggiunge a 67 anni, nel paese scandinavo si può scegliere fra 66 e 69. La differenza principale però sta nel fatto che da noi in realtà, grazie ad una serie di eccezioni legalmente consentite, l’età media alla quale si va in pensione è in realtà più bassa: 64 anni. Anche gli svedesi possono anticipare il pensionamento, ma non hanno a disposizione tutta quella serie di complicati incastri fra età anagrafica e periodi contributivi (le varie “quote 100”, “102”. ed ora “103”) che consentono agli italiani di sfuggire in mille modi alla regola generale. Esiste un’unica via per andare in pensione prima dell’età stabilita per legge, ed è la cosiddetta “pensione provvisoria”. Essa consiste in realtà in un prestito, che chi sceglie di usufruirne dovrà rimborsare allo Stato nel momento in cui avrà raggiunto i 66 anni e sarà entrato quindi nella forbice 66-69 di cui dicevamo sopra. La pensione provvisoria svedese assomiglia insomma ad un assegno di accompagnamento che l’individuo ottiene accettando sostanzialmente una riduzione della somma che gli spetterebbe se aspettasse di uscire dal mondo del lavoro all’età prescritta per legge. C’è inoltre un limite anagrafico. La si può chiedere solo dopo avere raggiunto i 63 anni.

Coloro che propongono di guardare a Stoccolma mettono però in guardia rispetto alla difficoltà di armonizzare i contenuti di quel sistema con quello in vigore nel nostro Paese, che è frutto di una serie ininterrotta di aggiustamenti successivi rispetto alla riforma Dini di trent’anni fa e alla riforma Fornero del 2011. La matassa da sbrogliare sarebbe particolarmente intricata. Uno dei problemi più grossi è lo spartiacque rappresentato dall’annata 1995, sia rispetto ai requisiti richiesti per andare in pensione sia rispetto ai metodi di calcolo dell’assegno. Le regole infatti sono diverse per coloro che hanno versato i primi contributi entro il 31 dicembre 1995 e coloro che hanno iniziato successivamente. Per i secondi l’ammontare dell’assegno dipende unicamente dai contributi versati, mentre per gli altri è commisurato anche alle retribuzioni percepite negli ultimi anni di attività. Quest’ultimo criterio di calcolo regge però solo se il numero degli occupati supera in maniera consistente quello dei pensionati, ed ha dovuto essere ridimensionato per alcuni e accantonato per altri, a fronte di una curva demografica che spinge in direzione opposta.

I due gruppi (“pre” e “post” 31 dicembre 1995) si distinguono anche in rapporto ai tempi necessari per acquisire il diritto alla pensione. I “pre”

possono accedere alla cosiddetta pensione di vecchiaia (che consente di godere in pieno delle somme spettanti) quando raggiungono i 67 anni di età. Possono però anticipare il ritiro dall’attività se hanno versato contributi per almeno 42 anni e 10 mesi (per le donne bastano 41 anni e 10 mesi). Senza addentrarsi per ora nella selva delle eccezioni che consentono di aggirare in parte questa regola, passiamo alla situazione dei “post 31 dicembre 1995”, per notare come l’età minima per la pensione di vecchiaia sia anche in questo caso di 67 anni, con una significativa differenza: se l’assegno è inferiore alla cosiddetta pensione minima (538 euro) l’età sale a 71. Quanto alla possibilità di “anticipare”, nel caso dei “post” bisogna avere almeno 64 anni, e l’assegno deve essere pari ad almeno il triplo della cosiddetta pensione minima. Si tratta della categoria di persone che beneficerebbero dell’eventuale approvazione relativa all’utilizzo del TFR di cui accennavamo sopra. Per puro scrupolo di cronaca aggiungo che l’età minima di 67 anni dovrebbe aumentare di tre mesi a partire dal 2027 in base a una legge che impone un adeguamento periodico all’innalzamento della cosiddetta aspettativa di vita. Alcune forze politiche in questo periodo puntano però a impedire tale incremento,

Cito solo brevemente la vasta gamma di alternative che spaziano dalla “quota 103” (si va in pensione con almeno 62 anni di età anagrafica e 41 di età contributiva, accettando però una decurtazione dell’assegno), all’’“opzione donna”, che riguarda particolari categorie di lavoratrici con 61 anni di età e 35 anni di versamenti contributivi (badanti, invalide civili, disoccupate di lungo corso) all’”Ape sociale” che è per certi aspetti una versione unisex dell’”opzione donna”. Per finire una nota solo apparentemente folkloristica riguarda i pensionati che vivono all’estero. Sono in totale 230mila circa, ma la categoria più interessante è quella di chi ha sempre lavorato in Italia e solo successivamente ha trasferito la propria residenza oltre confine. Sono quasi 38mila e ricevono la pensione tutta intera senza detrazioni. Le imposte relative vengono versate nelle casse del Paese ospitante, che è quasi sempre un Paese in cui al pensionato straniero viene garantito un trattamento fiscale assai favorevole. Tutto avviene nella legalità, ma l’erario italiano ne soffre.
 



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