Ci sono quesiti ai quali si tende a rispondere d’istinto, come se la verità fosse ovvia ed a portata di mano. Spesso però si finisce per attingere al repertorio dei luoghi comuni, e magari a confondere la realtà con i desideri. Se ad esempio si chiede a un italiano cosa pensi dell’attitudine imprenditoriale dei connazionali, è assai probabile ottenere un giudizio piuttosto lusinghiero: fa parte del nostro bagaglio culturale infatti, ma anche dell’immagine che di noi si ha all’estero, il cliché dell’individuo fantasioso, dotato di grande spirito d’adattamento e di inventiva. Ma in questo modo si tende a sopravvalutare un aspetto dello spirito imprenditoriale, trascurandone altri non meno rilevanti, se non di più, come la capacità organizzativa, la propensione al rischio, la disponibilità ad un costante aggiornamento tecnologico, l’apertura mentale verso i cambiamenti culturali e sociali, la conoscenza dei meccanismi produttivi e commerciali internazionali, e via dicendo.
Con uno sguardo che tiene conto di tutto questo insieme di questioni, gruppi di esperti hanno condotto recentemente delle ricerche da cui sono scaturiti risultati diversi, ma non necessariamente contrastanti. Particolarmente interessanti sono gli studi svolti da Unioncamere (con il concorso dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne) e dall’Universitas Mercatorum in collaborazione con l’Università delle Camere di Commercio Italiane ed altri istituti. Sostanzialmente ne emerge un quadro non molto lusinghiero, seppure nemmeno esageratamente fosco. Anziché al concetto di imprenditorialità Unioncamere preferisce rifarsi a quello di “imprenditività”. I due termini nuotano nello stesso mare semantico, ma il secondo ha un’accezione più ampia, includendo oltre alle qualità e competenze che deve possedere chi intenda promuovere un’attività economica propria, anche lo spirito di iniziativa e di innovazione personale in qualunque contesto operativo, incluso il lavoro dipendente. Ovviamente comunque fra gli indicatori dell’”imprenditività”, la disponibilità a lanciare un’attività in proprio è fra quelli più rilevanti.
Ebbene, secondo Unioncamere il tasso di imprenditorialità-imprenditività in Italia è inferiore alla media europea. Questo dato che riguarda la totalità della popolazione viene però ribaltato se si prende in esame la fascia d’età sino ai 39 anni. Qui la percentuale di imprenditori è superiore alla media europea. Il problema è che in termini assoluti il numero di giovani italiani titolari di una ditta che dia lavoro ad altre persone è scarso perché estremamente basso nel nostro Paese è il tasso di natalità. In parole semplici i giovani sono pochi. Un altro elemento che limita la crescita imprenditoriale nel mondo giovanile è la difficoltà sperimentata dalle cosiddette “start-up” nel reperire i finanziamenti necessari ad avviare un’impresa. Più del 14% degli intervistati denuncia l’impressione di essere scarsamente presi in considerazione dagli istituti di credito. Questo dato sulla mancanza di fiducia degli investitori nei confronti delle imprese giovanili è una peculiarità negativa nostrana. In nessun altro Paese europeo si arriva a quel 14% di cui sopra.
Non meno stimolanti sono gli esiti dell’indagine effettuata da Universitas Mercatorum, intitolata “Rapporto GEM Italia 2024-2025”, dove GEM sta per Global Entrepreneurship Monitor (Osservatorio globale sull’imprenditorialità). Ne risulta purtroppo che la propensione imprenditoriale in Italia sia in calo. Siamo al trentaquattresimo posto in una classifica di 51 Paesi esaminati. E a questo dato, riferito all’ultimo anno, si accompagna una tendenza in atto ormai da più di un decennio. Nell’ultimo biennio in particolare sono nate nuove imprese in quantità inferiore all’80% rispetto al numero registrato nel 2010. La coordinatrice del settore italiano della ricerca, Alessandra Micozzi, definisce “allarmante” il fatto che il nostro Paese rimanga fra quelli “a più bassa propensione imprenditoriale” e nota come ci sia una sorta di iato fra “la tendenza imprenditoriale” dei connazionali e l’effettiva creazione di nuove aziende.
Il Rapporto GEM Italia è parte di uno studio svolto su scala internazionale con la collaborazione dell’americano Babson College e dell’inglese LBS. L’inchiesta si è basata su un numero impressionante di interviste effettuate in 51 diversi Paesi, duemila delle quali in Italia.
Per quanto riguarda casa nostra, a parte le criticità summenzionate, emergono anche fattori positivi. Si sottolineano ad esempio i segnali di ripresa manifestatisi dopo la crisi del Covid. In altre parole, se siamo sotto ai livelli del 2010, abbiamo però recuperato notevolmente rispetto alla soglia infima ove eravamo precipitati nel 2020. In quell’anno, mentre l’attività economica mondiale subiva il duro colpo inflitto dal dilagare della pandemia, l’indice TEA (Total Early Stage Entrepreneurial Activity) era sceso in Italia al 2%. Nel 2024 è risalito al 9,6%. Il TEA misura il livello di nuove iniziative imprenditoriali all’interno di una specifica popolazione. La percentuale sale al 15% fra i laureati, ma cala fortemente nell’universo femminile. Solo un quarto delle aziende neonate hanno alla testa una donna.
Un ruolo contiguo a quello della propensione imprenditoriale è svolto dalla maggiore o minore inclinazione all’innovazione manageriale. Anche in questo campo l’Italia fatica a reggere il passo dei nostri vicini. Investiamo in ricerca e sviluppo l’1,33% del PIL (Prodotto Interno Lordo), mentre la media dell’area UE si attesta sul 2,3%. Siamo largamente sotto alla Germania la cui percentuale supera il 3% ed alla Francia che arriva oltre il 2%. Le cifre emergono dai documenti diffusi qualche mese fa da diversi enti ed associazioni (Confindustria, Federmacchine, Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea, etc.). Creano difficoltà ad un armonioso progresso delle attività innovative anche i nostri cronici squilibri regionali. Nonostante alcune zone della Campania o della Sicilia ospitino una quantità considerevole di esperimenti “start-up”, la partecipazione globale del meridione al processo di ammodernamento tecnologico è largamente insufficiente. Secondo gli stessi studi citati poc’anzi, solo il 15% degli investimenti in ricerca e sviluppo riguarda il Sud Italia.
Non resta che consolarsi allora con i pur numerosi esempi di imprenditorialità innovativa regalatici con una certa frequenza dalle cronache giornalistiche. Una per tutte, ed ha per teatro proprio una ex-area arretrata, quella che vede protagonista Emma Taveri, esperta in marketing digitale. La sua esperienza è particolarmente significativa anche perché contraddice lo stereotipo del “cervello in fuga”. Trattasi piuttosto di un cervello di ritorno. Dopo avere prestato per quattro anni le sue competenze in marketing digitale a diverse multinazionali londinesi, Taveri ha fondato una società di consulenza per l’innovazione a carattere sociale ed ha contribuito al rilancio economico di Castelsaraceno, una località nel parco del Pollino, in Lucania. Significativo il modo in cui l’imprenditrice spiega l’origine del suo tentativo: “Partivo dalla convinzione che sia sbagliato parlare di aree depresse, Meglio definirle piuttosto aree ad alto potenziale inespresso”. L’iniziativa a cui sta contribuendo è un esempio del modo in cui si possa promuovere il turismo e creare posti di lavoro senza snaturare l’ambiente. Oggi Castelsaraceno si candida al concorso dell’Agenzia Onu per il turismo intitolato “Best Tourism Village”.